venerdì 20 febbraio 2009

BANGLADESH SÌ, BANGLADESH NO

Tempo fa ho descritto alcuni episodi di un mio viaggio in Bangladesh. Ci vuole una fortissima motivazione per recarsi in questo paese, visto che è martoriato da mille problemi, dalla fame alla sicurezza, dai disastri climatici alla sovrappopolazione. Recarsi in un paese come il Bangladesh, dove ci sono miseria nera, malattia e fame è fuori questione, pare impensabile. In realtà recarsi in Bangladesh è molto meno peggio di quello si pensa. L’altra volta avevo descritto la rigogliosa campagna. Vedere tutti i campi ordinati e lavorati non dà un senso di squallore. Al contrario! Certo si visita il paese durante la stagione ‘secca’, d’inverno. D’estate, come sappiamo, le alluvioni sono frequenti. Pensate che il territorio del Bangladesh è per la maggior parte sotto i 10 metri slm, e si ritiene che quasi il 10% della regione verrebbe inondata se il livello del mare crescesse di un metro! La capitale Dacca è un inferno, d’accordo, ma le città minori sono vivibili.
La gente è molto cordiale e ospitale. Dato che in Bangladesh si vedono pochi turisti, gli abitanti locali sono molto curiosi e si affollano attorno a loro. I siti archeologici poi sono notevoli. Il monastero buddhista di Paharpur, per esempio, è grandioso: è considerato il più grande monastero a sud dell’Himalaya. L'aspetto del santuario, piramidale a base cruciforme, ha influenzato costruzioni coeve del sud-est asiatico. Nei dintorni sono stati ritrovati numerosi oggetti di terracotta, monete, statuette con immagini divine e ceramiche, che sono conservati nei musei di Paharpur e Rajshahi. Attorno alla base del grande santuario si trovano delle belle formelle di bassorilievi in terracotta con scene di persone e animali. Forse questo sito archeologico è il più bello del Bangladesh, ma ce ne sono tanti altri sparsi per il paese. Non è un paese grande e si può percorrerlo abbastanza facilmente in poco tempo.
Fuori Dacca, dove si trovano alberghi a 5 stelle, le strutture ricettive sono modeste ma più che accettabili. Spesso nei ristoranti degli alberghi non servono cucina bengalese bensì internazionale, tendente all’inglese. Diversamente dall’India, dove si mangiano cibi ottimi ma speziati dappertutto, in Bangladesh danno piatti insipidi ai visitatori. Forse è il cuoco che decide di preparare un menu inglese quando sa che gli ospiti sono turisti stranieri occidentali. Chi non ama le spezie gioisce, ma chi ama la vera cucina indiana brontola! Comunque, a parte queste considerazioni, che hanno una importanza relativa, il Bangladesh sorprende.
La vita culturale del paese si concentra a Dacca, sede della Bangla Academy, istituzione che si occupa dello sviluppo e della promozione della lingua e letteratura bengalese. A Dacca si trovano inoltre la biblioteca principale del paese (presso l’università) e il Museo Nazionale del Bangladesh, ricco di splendide collezioni d’arte e di reperti archeologici, una vera goduria. Nell’Università di Rajshahi invece ha sede il Museo Varendra, importante centro di ricerca archeologica, antropologica e storica.
Il Bangladesh è un paese molto, molto forte. Fa sempre parte del subcontinente indiano ma, mentre India e Pakistan sono paesi più conosciuti e visitati, problemi di terrorismo a parte, non è frequentato dai turisti. Primo perché non viene proposto praticamente da nessuno, secondo per la miseria che caratterizza il paese, terzo perché si pensa che non ci sia niente da vedere. Come ho sottolineato all’inizio di questo racconto, ci vuole una fortissima motivazione per recarsi in Bangladesh, dettata dalla voglia di scoprire nuovi orizzonti e soprattutto di approfondire argomenti come il buddhismo e l’induismo, anche se ora, al novanta percento, la popolazione è di religione islamica. È una grande avventura!
Vi lascio con un aforismo del poeta bengalese Tagore, nato dall’altra parte della barricata, nel Bengala Occidentale-India, ma allora tutt’uno con il Bangladesh: “Quando una religione ha la pretesa di imporre la sua dottrina all’umanità intera, si degrada a tirannia e diventa una forma d’imperialismo”.

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