venerdì 19 dicembre 2008

DISAGI LUNGO LA VIA DELLA SETA

La settimana scorsa ho parlato del Pakistan, dell’esperienza lungo la Karakoroum Highway verso il confine cinese e dell’interruzione della strada a causa di una fiumana d’acqua. Abbiamo dovuto superare la ‘falla’ facendo una specie di ‘trekking’, salendo per un’altura scivolosa per discendere infine sulla strada. Dall’altra parte siamo riusciti a prendere dei mezzi per superare il passo ed arrivare a Tashkorgan, il primo paese di una certa consistenza che s’incontra dalla parte cinese.
A Tashkorgan ci siamo riuniti in albergo. Il giorno successivo siamo partiti per Kashgar. La strada allora era infida (oggi c’è una strada nuova). Ad un certo punto si percorre una valle, o piuttosto il letto di un torrente, che d’estate si riempie a causa dello scioglimento delle nevi. Per attraversare certi corsi d’acqua che provenivano dalle montagne e che s’immettevano nel torrente siamo scesi dal pullman mille volte per attraversare l’ostacolo a piedi altrimenti, con il peso, c’era la probabilità di rimanere impantanati.
Mi ricordo che lungo il percorso, mentre noi eravamo fermi nei pressi di un corso d’acqua con il fondo fangoso, è passata una lussuosa macchina cinese, una specie di macchina blu, probabilmente con personaggi politici all’interno. Ci superano con ‘non-chalance’. La macchina entra nell’acqua corrente e ad un certo punto si ferma. L’autista, furbo, accelera e le ruote affondano sempre di più nel fango. Escono tutti dalla macchina bagnandosi e sporcandosi di fango fino al ginocchio. È stato uno spettacolo divertente!
Noi in qualche modo abbiamo attraversato l’ostacolo a piedi cercando un passaggio più a monte. L’autista del nostro mezzo ha buttato pietre sul fondo, ha trovato un asse di legno e è riuscito, in qualche modo, ad attraversare il guado senza compromettere le nostre valige. Dunque il maltempo ci ha preceduto fino ad Urumqi a migliaia di chilometri da Tashkorgan.
Ad Aksu, sempre nella regione cinese dello Sinkiang (Xinjiang) tra Kashgar e Kuqa, un fortissimo temporale in montagna aveva gonfiato il torrente. La massa d’acqua scendeva verso Aksu e scardinava il ponte, che era pericolante e chiuso a tempo indeterminato. Cosa potevamo fare? Tra l’altro ad Aksu non c’era niente da vedere o visitare, era una specie di oasi nel deserto e basta. Allora è intervenuto il locale ministro del turismo ed altri funzionari. Sono andato in jeep con i responsabili a vedere una strada alternativa. C’era un altro ponte diversi chilometri a sud di Aksu che attraversava il torrente. Il ponte però non veniva usato da mezzi pesanti.
Decidiamo di provare. Nel frattempo il gruppo era in albergo ad ascoltare una conferenza del nostro professore. Mi ero raccomandato che non si allontanassero dall’albergo. Saliamo tutti sul pullman velocemente e partiamo. Percorriamo il ponte a piedi e il nostro pullman attraversa senza problemi. Né la guida né l’autista però conoscono la via per ritornare sulla strada maestra. La strada che è stretta e sterrata. Ad un certo punto chiediamo ad una famigliola di darci delle indicazioni, perché ogni tanto ci sono dei bivi. Loro stanno andando al mercato e dicono che dalla cittadina dove sono diretti la strada conduce alla strada principale. Li prendiamo su. Ci indicano il percorso. Arriviamo al paese dove si trova il mercato. La bella famigliola scende. Non ci fermiamo perché la priorità è trovare la strada maestra.
Proseguiamo ma dopo qualche chilometro c’è un ostacolo. Stanno costruendo la nuova ferroviaria che collegherà Kashgar ad Urumqi e la linea rimane rialzata rispetto alla strada. Sicuramente il pullman toccherà sotto. Di nuovo scendiamo e questa volta dobbiamo scaricare anche le valige. Il fondo del pullman tocca leggermente i binari della ferrovia, ma, dopo un’accurata ispezione dell’autista, ripartiamo con le valige! Da quando siamo partiti da Aksu sono passate tre ore, ma poco dopo sbuchiamo sulla strada maestra. Abbiamo fatto soltanto 70 km! Nonostante tutte le difficoltà del percorso non perdiamo neanche una visita e riusciamo ad arrivare ad Urumqi senza alcun ritardo.
Il nostro corrispondente di Urumqi era molto preoccupato perché aveva perso le nostre tracce, le linee telefoniche erano interrotte a causa dei forti temporali e del vento. La cosa strana è che abbiamo sempre avuto bel tempo… I temporali ci precedevano di un giorno lasciando disastri, smottamenti e frane. Credo di non essere mai sceso e salito dal pullman così tante volte come in questo viaggio. Comunque il gruppo è stato fantastico e molto collaborativo e ci siamo poi divertiti un mondo.
Viaggiare è faticoso, soprattutto quando si cambia albergo tutte le notti o quasi. Ma viaggiare per vedere e capire è certamente gratificante, anche quando sorgono disagi come in questo caso. Anzi, come ho detto più volte, i viaggi con forti disagi, che poi finiscono bene, assumono col tempo un’aurea mistica che rimane indelebilmente nella memoria. Cosa si racconta altrimenti agli amici?

Buone feste a tutti e un arrivederci a gennaio!

venerdì 12 dicembre 2008

PAKISTAN: MOHENJODARO E KARAKOROUM HIGHWAY

Il Pakistan è di grande interesse e intriso di storia. La civiltà dell’Indo/Sarasvati è tra le più antiche del mondo. Alla fine degli anni ’80 e ’90 mi sono recato spesso in Pakistan. Per certi versi agosto non è il mese migliore per visitare il paese perché una parte del Pakistan risente del monsone, molto meno comunque di molte zone dell’India. Una volta la mitica Swissair volava su Karachi. Arrivare all’aeroporto di Karachi con un gruppo è sempre stata un’impresa per via dei facchini: comodo far raccogliere tutte le valige per evitare confusione, ma un’impresa notevole contrattare con loro per ottenere un prezzo ragionevole. Cercavano spudoratamente e con insistenza di ottenere una somma che neanche all’aeroporto di Osaka Kansai in Giappone oserebbero chiedere (se ci fossero i facchini all’interno dell’aeroporto!).
Da Karachi facevamo un’escursione di una giornata in aereo al sito archeologico di Mohenjodaro. Una volta mi sono svegliato di soprassalto (eravamo all’hotel Sheraton di Karachi) per la grande quantità di pioggia che cadeva. Dovevamo partire per Mohenjodaro quella stessa mattina piuttosto presto in volo. Mi alzo e guardo fuori: lampi, tuoni, pioggia scrosciante. “Non arriveremo mai a Mohenjodaro”, mi sono detto. Rimango alla finestra a lungo. Al mattino saliamo sul pullman per l’aeroporto. Non piove più e le nuvole stavano diradandosi. Partiamo regolarmente.
Mohenjodaro è vicino al fiume Indo ma rimane leggermente rialzato rispetto al terreno circostante. Stessa cosa dicasi del piccolo aeroporto, che serve la città della famiglia Bhutto, Larkana. Il sito archeologico dista credo soltanto 500 metri o 1 km dall’aeroporto. Atterriamo senza problemi anche se le campagne circostanti sono allagate!
Il sito di Mohenjodaro è diviso in due settori: la cittadella e la città bassa. La città bassa è molto estesa. Si trova lo schema a griglia delle strade. Sono strade lunghe e dritte. Le abitazioni erano spesso munite di una sala da bagno, un sistema di drenaggio delle acque sporche. È una visita di grande interesse. Si mangia al sacco nel locale dell’ente turistico, proprio di fianco al piccolo museo. Un mago locale offre i suoi trucchi, a pagamento, per intrattenere gli ospiti. Molto divertente!
Ritorniamo al piccolo aeroporto per il volo di rientro a Karachi. A proposito, il sole spaccava le pietre. Eravamo circondati dall’acqua per via delle forti piogge dei giorni precedenti. Potete immaginare l’umidità. Un caldo veramente soffocante. Saremmo voluti stare di più a gironzolare per le strade della città bassa, ma non c’era un po’ d’ombra neanche a pagarla!
Tempo fa ho parlato delle montagne del Pakistan, tra le più belle del mondo. Questo è successo nel 1998. Eravamo tanti, credo in 25. Era una bella giornata e stavamo andando verso il confine con la Cina. Ad un certo punto incontriamo un pullman che proveniva dalla parte opposta. Ci fermiamo, così gli autisti si passano le notizie sulle condizioni della strada. Scopriamo che è interrotta: non per la pioggia ma per il caldo! A causa del caldo anomalo le nevi e i ghiacciai in alta quota si stavano sciogliendo in maniera cospicua. Il torrente si era talmente gonfiato d’acqua che era straripato, diventando una massa d’acqua impressionante e invadendo la strada, sommergendola e distruggendola.
E ora cosa facciamo? I locali sono molto inventivi. Avevano già in qualche modo tratteggiato un itinerario, una specie di percorso da trekking. Si superava l’ostacolo per arrivare a piedi dall’altra parte, da dove si poteva forse prendere un altro mezzo. In effetti era così. L’inizio del percorso però era molto ripido su un terreno scivoloso a causa della terra friabile e dei sassolini. Come faremo con le valige? Come sapete, viaggiamo sempre con troppe valige! Non soltanto troppe ma anche pesanti. Niente paura, gli uomini del villaggio sono organizzati. Ci pensano loro. Avrebbero trasportato non soltanto le nostre valige, credo una trentina, ma anche le nostre borse a mano. Era impensabile salire anche con una sola borsa a mano, se non una borsetta di documenti attaccata al collo. Era troppo ripido e scivoloso. Ma prima dovevo contrattare il prezzo. Una follia, ma non avevo alternative. Con quei soldi hanno rifatto le loro case! Avevano il coltello dalla parte del manico. Non c’era altro da fare. Scarichiamo le valige. I ‘facchini’, gli stessi uomini del villaggio, prendono anche due o tre valige insieme e nello stesso tempo trascinano per mano alcuni partecipanti del gruppo per aiutarli a fare la salita assai scivolosa. La prima parte è difficile, ma poi c’è un sentiero vero e proprio con vedute stupende sulle alte vette… ma chi ci pensa… dobbiamo arrivare dall’altra parte. Dopo un’ora circa, forse di più, arriviamo dall’altra parte. Per arrivare sulla strada dall’altra parte dobbiamo fare un salto ma in un modo o l’altro riusciamo a calarci. Meno male che il tempo è bello! Non oso pensare cosa sarebbe successo se ci fosse stata la pioggia. Infine pago, ma voglio una ricevuta. Avevamo portato i box lunch insieme ai bagagli. Allora la guida strappa un pezzo di cartone da un box lunch e il capo villaggio scrive la ricevuta. Ho ancora il pezzo di cartone come testimonianza. C’è scritto, più o meno: ‘Ricevuta. Riceviamo la somma di tot rupie da Potorag a Kunjerab Pass da Mr. M. Richard’. C’è la firma del ‘capo’ e la data, il 17/08/98! Siamo riusciti in qualche modo a prendere altri mezzi di fortuna per arrivare a Tashkorgan, dalla parte cinese. Non siamo arrivati tutti insieme appassionatamente, ma almeno siamo arrivati sani e salvi per poi continuare la nostra avventura.
Ci sono stati altri episodi incredibili nel 1998 lungo il percorso verso oriente. Ma mi riservo di raccontare altri fattacci più avanti.

venerdì 5 dicembre 2008

Rajasthan

Prima di raccontare alcuni episodi del Rajasthan, vorrei ricordare gli impiegati degli alberghi Taj e Oberoi Trident di Bombay, che hanno perso la vita durante i recenti attacchi terroristici. Mi dispiace moltissimo per gli stranieri che sono stati colpiti e per il signore di Livorno che ha perso la vita. Il mio pensiero va ai loro famigliari. Ma un ricordo speciale va ai lavoratori degli alberghi che hanno dovuto fronteggiare i terroristi. So che al Trident gli addetti al ricevimento non hanno ceduto alle richieste dei terroristi di svelare i nomi degli americani e dei britannici presenti nell’hotel. Per questo motivo alcuni sono stati uccisi all’istante. Ho frequentato molto gli alberghi di Bombay, in particolare il Trident, e probabilmente conoscevo alcuni di quelli che non ci sono più. Ciò mi rattrista moltissimo. Penso alla disperazione dei loro famigliari e di coloro che sono sopravvissuti, testimoni del massacro dei loro colleghi.

Vorrei dedicare a tutti loro una bellissima poesia di Tagore:

Concedi ch'io possa sedere per un momento al tuo fianco.
Le opere cui sto attendendo potrò finirle più tardi.
Lontano dalla vista del tuo volto non conosco né tregua né riposo
e il mio lavoro
diventa una pena senza fine
in un mare sconfinato di dolori.
Oggi l'estate è venuta
alla mia finestra
con i suoi sussurri e sospiri,
le api fanno i menestrelli
alla corte del boschetto in fiore.
Ora è tempo di sedere tranquilli
a faccia a faccia con te
e di cantare la consacrazione
della mia vita
in questa calma straripante e silenziosa.

Il Rajasthan è la zona più turistica dell’India, famoso per le sue fortezze inespugnabili e i suoi sontuosi palazzi. Prima si chiamava Rajputana ed era diviso in tanti piccoli regni governati da maharaja. È uno stato molto tradizionalista e, diversamente da quello che pensano molti, il Rajasthan è fortemente indù. Infatti, tutti i piccoli regni rajput indù resistettero incredibilmente alle invasioni musulmane. Forse alcuni pensano che nel Rajasthan ci sia un’influenza islamica importante, perché l’arte del Rajasthan è diversa dal resto dell’India. In effetti è piuttosto arabeggiante: stoffe con vetrini colorati, palazzi con giochi di luce e giardini incredibili. I cosiddetti palazzi di città, dove risiedevano i maharaja, e dove alcuni vivono ancora, magari in un’ala del palazzo, sono piuttosto ripetitivi. Molti sono diventati musei di scarso interesse, con suppellettili vari con qualche bella collezione di miniature. Gli interni possono essere interessanti, ma dopo un po’ vengono a noia perché, più o meno, sono tutti uguali. Trovo la fortezza di Jodhpur, abbarbicata sulla collina, stupenda come struttura. La costruzione è di arenaria rossa ed è intagliata talmente finemente che sembra un merletto, non di arenaria bensì di legno. La raffinatezza della sua architettura è grandiosa.
Il Rajasthan piace molto ai turisti, perché c’è molto colore. Le stoffe sono coloratissime e le donne si vestono di colori sgargianti. Quasi tutti gli uomini hanno il turbante, un copricapo ottenuto avvolgendo attorno al capo una o più lunghe fasce di seta, lana o cotone. Può raggiungere anche i cinque metri di lunghezza, se non di più. I colori sono sempre sgargianti. Ne ho provato uno una volta e devo ammettere che era molto pesante e nel caldo mese d’agosto mi sembrava di avere del piombo in testa.
Anche le danze sono diverse rispetto ad altre parti dell’India. Per esempio il Teratali è una rappresentazione con canti e danze, eseguite dalle donne del Rajasthan, basata sugli episodi della vita di Krishna. Le danzatrici, appartenenti alla casta dei Sapera (la casta degli incantatori di serpenti), per esempio, eseguono una serie di danze sedute, in cui fanno tintinnare ritmicamente dei piccoli cimbali (mangira), di cui sono adornate. La musica è ricca di sonorità maestose e di melodie davvero mozzafiato che danno vita alla passione ed all'eroismo epico degli antenati. Questi artisti professano religioni diverse: possono essere musulmani, sikh e anche induisti e provengono da diverse caste artistiche che comprendono danzatori ed incantatori di serpenti, poeti, trovatori e musicisti. Sotto quest’aspetto il Rajasthan è di grande interesse.
Il Rajasthan va fatto in macchina per godere appieno del suo paesaggio. Bellissimi sono gli ‘haveli’, nella zona di Shekhawati, a nord di Jaipur. Sono case o palazzi interamente dipinti costruiti dai ricchi commercianti rajasthani soprattutto alla fine del XVIII/XIX secolo. Gli affreschi sono spesso di carattere religioso. Particolamente gettonato è Krishna (spesso rappresentato con gopi (pastorelle di vacche), ma ci sono anche affreschi secolari, personaggi europei, soldati inglesi, animali e così via. Purtroppo la conservazione di questi ‘monumenti’ è quasi inesistente. Alcuni di questi palazzi sono stati trasformati in albergo e sono quindi sono stati messi a posto e conservati con cura.
Arrivare a Jaisalmer, la cittadina più ad ovest, verso il Pakistan, con la sua magnifica fortezza in arenaria di colore giallo-marrone è un’esperienza incredibile. Assume un bellissimo colore al tramonto. Alcuni haveli di Jaisalmer sono magnifici: si tratta di palazzi costruiti in arenaria gialla e squisitamente scolpiti, con porte, finestre e balconi di una finezza incredibile. Come ho detto sopra, molti haveli (case dei commercianti) stanno andando in rovina.
Dopo l’indipendenza del 1947, il subcontinente indiano fu diviso in tre parti: India, Pakistan occidentale e Pakistan orientale (oggi Bangladesh). I confini furono chiusi e i commerci via terra impediti. Nel passato il Rajasthan collegava l’India con l’Egitto, l’Arabia, la Persia e l’Occidente. Ma, già prima della partizione, quando Bombay cominciò ad essere un porto importante, il commercio cominciò a spostarsi da terra a mare, perciò lontano dal Rajasthan. Dopo il 1947, molti commercianti si trasferirono a Calcutta, Bombay e Delhi.
La città più brutta del Rajasthan per me è il capoluogo Jaipur, chiamata la città rosa. Sicuramente verrò smentito. C’è il famoso palazzo dei venti, al momento fatiscente, ma comunque molto meno ‘affascinante’ di quello che ci si attende. È una città caotica e rumorosa, ha il vantaggio di essere vicina a Forte Amber, situata all’imboccatura di una gola rocciosa. Lì usano gli elefanti per portare i turisti sulla sommità e, durante l’alta stagione, gli elefanti lavorano talmente tanto che faticano a fare il tragitto avanti e indietro. Da un lato vorrei rifiutarmi di prendere l’elefante, ma dall’altra parte mi rendo conto che se tutti facessero così quelli che li guidano non avrebbero guadagno e ne soffrirebbero tutti. L’India è sempre un dilemma. Bisogna accettarla com’è, o no?

lunedì 1 dicembre 2008

Uzbekistan

Avevo promesso di parlare dell’Uzbekistan. Nel lontano 1984 sono stato per la prima volta in Uzbekistan, quando faceva ancora parte dell’Unione Sovietica. Si doveva volare su Mosca, stare una notte e poi proseguire in volo per Tashkent o Samarcanda. Allora era tutto super-organizzato e super-controllato dalla vecchia ‘signora’ Intourist. Dall’aereo si saliva direttamente sul pullman che portava all’albergo. Le valige venivano prese, caricate sui camioncini e portate in albergo. I turisti stranieri avevano le loro sale d’attesa sia nelle stazioni che negli aeroporti. Era difficile mescolarsi con la gente. Allora, in Uzbekistan, non c’erano mercati e c’erano pochissimi negozi, a parte quelli di stato. Le visite erano incentrate sui monumenti. Oltre ai monumenti, ti portavano a vedere i campi di cotone oppure il deserto e cose del genere. Non potevi fare visite individuali ma bisognava seguire sempre la guida russa, la matrona. Era tutto ovattato, come stare in un guscio. Non c’era da preoccuparsi di niente. Nessun problema, se c’era un ritardo ti portavano da qualche parte per riempire il tempo. Gli alberghi erano fatiscenti, il vitto scarso e monotono, ma il fatto di essere a Samarcanda o Khiva o Bukhara sembrava un sogno.
Sono tornato in Uzbekistan diverse volte, ma sempre dopo l’indipendenza avvenuta nel 1991. Prima dell’indipendenza l’Uzbekistan produceva soltanto cotone. Dopo l’indipendenza, si è assunto il difficile compito di limitare la propria dipendenza dal mercato del cotone e di riportare il fertile suolo alla produzione agricola e abbandonare la monocultura.
Sono ritornato di nuovo quest’anno, 2008, e ho visto dei cambiamenti notevoli. Prima di tutto si mangia molto meglio, anche rispetto a cinque anni fa e gli alberghi sono notevolmente migliorati. Molti piccoli alberghi ‘charme’ sono stati costruiti a Bukhara e Samarcanda. Comincia ad esserci uno spirito imprenditoriale. A Bukhara siamo stati in un grazioso albergo in tipico stile uzbeko con il cortile interno. L’esterno non prometteva niente di buono, muri grigi e, di fianco, dei garage fatti di latta tutti sbilenchi. Ma questo è tipico delle case uzbeke, come nei paesi arabi, l’esterno di solito non ha finestre, appare fatiscente con soltanto un cancello d’ingresso quasi sempre chiuso. Tutto sembra molto delabré, ma l’ambiente all’interno è tutta un’altra cosa: un piccolo paradiso e rifugio di pace. Una partecipante del gruppo ha detto che sembrava di essere in una baita di montagna, anche per l’uso massiccio di legno nella costruzione. In passato andavamo in un grosso complesso alberghiero pieno di disfunzioni e problemi. I vantaggi di stare in una struttura più piccola sono diversi: essere nel centro storico, a pochi minuti dalla piazza centrale, l’atmosfera domestica, l’assenza di rumorosi turisti (come se noi non lo fossimo)!
Sotto l’Unione Sovietica non c’erano mercati. Oggi è tutto un mercato, è addirittura eccessivo. Molte ex-madrase o scuole coraniche sono diventati dei grandi bazar. Ovunque ci sono mercati e negozi, negozi e mercati. L’artigianato uzbeko è bello e vario ed è parte della sua cultura, ma potete immaginare come le nostre signore fremevano? Si fermavano continuamente per guardare le merci. "Quando riusciremo a fare compere?" Dicevano in coro! Non riuscivamo ad andare avanti con le nostre visite programmate!
Il centro storico del khanato di Bukhara è un gioiellino. L’unica cosa che trovo noiosa è la cittadella, l’Ark, il nucleo originario della città. Nel 1920 un incendio distrusse tutti gli edifici in legno. La ricostruzione è avvenuta sulla base di documenti di archivio. Colpiscono l’ingresso alla cittadella e le mura, ma c’è poco da vedere all’interno: un museo non particolarmente interessante. La cosa più bella di Bukhara, tra i monumenti più belli dell’arte islamica, è il mausoleo samanide, costruito in mattoni. C’è da perdere la testa per la sua bellezza e armonia.
Si associa Samarcanda con Tamerlano, che la scelse come sua capitale, incontro tra mondo greco e indiano, già abitata da Alessandro Magno ed emporio tra i più importanti sulla Via della Seta. Il famoso Registan è un’immensa piazza con monumentali scuole coraniche sui tre lati, in cui è stato fatto un massiccio intervento di restauro. All’interno di uno degli edifici sulla piazza del Registan è stato allestito un museo interessante dove si trovano vecchie foto di Samarcanda, che mostrano com’era ridotta la piazza e i suoi monumenti.
Il monumento di Samarcanda che mi piace di più è la necropoli monumentale. Peccato che sono intervenuti così massicciamente nei restauri. Mi piaceva quando era in rovina… c’era un’atmosfera straordinaria che ora, in parte, si è persa. Anche gli affreschi dell’antica città di Afrosiab sono eccelsi.
Quest’estate abbiamo girato molto in pullman, probabilmente è l’unico modo per vedere bene un paese. I paesaggi uzbeki, in generale, non sono esaltanti. Dopo aver attraversato lo Sinkiang (Turkmenistan cinese) e la repubblica Kirghisa, dove i paesaggi sono spettacolari, l’Uzbekistan sembra monotono. La valle di Fergana, circondata dalla Republica Kirghisa e dal Tagikistan, è una valle fertilissima e densamente popolata, circondata dalle catene montuose Tien Shan e Pamir, nota per la famosa leggenda dei cavalli celesti di Fergana, cavalli nati dall’accoppiamento tra draghi e giumente e tenuti gelosamente nascosti dalla popolazione locale, poiché con il loro possesso si può salire in cielo e perseguire l’immortalità. La valle assomiglia un po’ alla Val Padana, anche per il suo clima.
Per arrivare alla capitale Tashkent da Fergana si attraversa una catena montuosa non particolarmente ridente lungo un corridoio tra il Tagikistan e il Kazakistan. Dall’altra parte del paese, ad ovest, il paesaggio tra Khiva e Bukhara è desertico, uniforme e direi triste, ma il fatto di costeggiare e vedere dall’alto il fiume Oxus (Amudarya) riempie il cuore di gioia, anche se la siccità ha ridotto il fiume ad un rivolo. Un’altra volta vi parlerò di Termez, al confine con l’Afghanistan.

giovedì 20 novembre 2008

Bihar - India

Uno degli stati più poveri dell’India è il Bihar. Si trova nell’India orientale. Confina con il Nepal a nord e il Bengala Occidentale a est. La capitale Patna è adagiata sul fiume Gange. Il letto del fiume è enorme, ma, nonostante ciò, spesso, durante il monsone, il fiume si gonfia all’inverosimile e allaga le campagne circonvicine. La città di Patna comunque rimane sopra un’altura sul fiume e difficilmente viene colpita. L’altra parte del fiume invece s’allaga quasi tutti gli anni.
Patna è una brutta città e assai arretrata rispetto ad altri capoluoghi come Bhopal (Madhya Pradesh), Hyderabad (Andhra Pradesh) o Bangalore (Karnataka), per portare alcuni esempi. Ha comunque un passato, un lontano passato glorioso.
Col nome di Pataliputra fu capitale del regno di Magadha. Con l'ascesa dell’impero Maurya, venne scelta come capitale imperiale. Le prime descrizioni di Pataliputra si devono al geografo Megastene, che serviva come ambasciatore dei Selucidi presso i Maurya verso la fine del regno di Chandragupta. Patna rimase capitale sotto l’impero Gupta. Fu quindi un importante centro religioso e artistico, con molti monasteri e templi sia induisti che buddhisti. Oggi è difficile intuire il suo glorioso passato. Lo scavo di Pataliputra è quasi inesistente. Rimane la traccia di un’enorme sala colonnata dall’epoca Maurya. Quando visitai per la prima volta la sala colonnata era tutto sott’acqua. In loco è rimasta soltanto una colonna, messa lì come testimonianza.
Arrivati a Patna in aereo da Bombay siamo andati subito in albergo, classificato 5 stelle (ma ne vale neanche la metà), per correre fuori a vedere Pataliputra. Tutti entusiasti, ma che delusione! Certo è uno scavo importantissimo per gli storici ma per i non addetti ai lavori è veramente deludente. Non è rimasto praticamente niente… il vuoto! Ci siamo guardati in faccia, senza commentare. Per dimenticare la delusione ho proposto di fare un giro in centro e vedere il mercato, prima della conferenza serale. Abbiamo preso dei risciò. Pochissimi turisti vanno a Patna, a parte i giapponesi che fanno un percorso ‘buddhista’. Patna, naturalmente, è una tappa obbligatoria. Il giro è stato molto interessante, non la città in sé ma la vita, le persone.
Vicino alla stazione si trova un nuovo e imponente tempio indù, dedicato a Hanuman (il modello del devoto servitore degli dei) a forma di pagoda. Di sera è tutto illuminato e pullula di adoratori. Patna non è una città ‘da godere’, al contrario ha un’atmosfera cupa. Come in quasi tutta l’India, non esiste il servizio di nettezza urbana. A Patna accumulano l’immondizia sui marciapiedi nelle zone semi-periferiche e la coprono con sabbia e terra.
In compenso, il museo archeologico di Patna è un gioiello con statue di epoca Maurya, Gupta e Pala. Di bellezza stravolgente è la statua della Yakshi (semi-dea della fertilità e dell’abbondanza). Nelle vicinanze di Patna, dall’altra parte del fiume, in una campagna rigogliosa, si trova un posto di pace e tranquillità: Vaishali, dove si tenne il secondo concilio buddhista e dove si trova una bellissima colonna di Ashoka. Il posto è magico dopo la confusione e la sporcizia di Patna.
Bihar, a proposito, deriva da Vihar, che significa monastero buddhista. L’importanza del Bihar è fuori questione, ma per apprezzarlo maggiormente bisogna essere amanti della cultura indiana. Benché poverissimi, i villaggi sono molto caratteristici, sembrano rimasti fermi nel tempo. L’agricoltura è la fonte principale di sussistenza grazie al fertile suolo alluvionale della valle del Gange: grano, riso, juta, granturco, canna da zucchero, tabacco, banane e tante patate.
Nelle vicinanze di Patna ci sono molti luoghi ‘buddhisti’ da visitare tra cui Nalanda, sede di una celebre università, che attirò uomini di cultura alla ricerca di un confronto sul grande tema del buddhismo. Lo stato del Bihar non gode di buona fama in India, è noto per la corruzione politica e per le battaglie intestine all’interno dell’Università di Patna.
Nel Bihar ci sono molti problemi tra la casta dei brahmini e i cosiddetti senza casta, i paria. Il sentimento di appartenenza ad una casta è sempre molto, molto forte, non soltanto nel Bihar. Un proverbio sanscrito lo evidenzia dicendo: “L'uomo deve sacrificarsi alla famiglia, deve sacrificare la famiglia alla casta, la casta al paese, il suo paese al mondo, e il mondo a se stesso." A parte queste considerazioni, visitare il Bihar, anche se più consigliabile per ‘esperti’ e amanti del buddhismo, conserva un fascino di ‘già passato’, che sta scomparendo rapidamente da altre zone dell’India.
L’ultima volta sono stato nel 2002, sei anni fa. Sarà cambiata? Ne dubito. Comunque l’anno scorso, novembre 2007, un nostro gruppetto ha visitato Patna e dintorni in un viaggio epico chiamato ‘Regno di Magadha’. Vorrei sentire magari il loro parere a riguardo. Bisogna avere un motivo intrinseco per recarsi nel Bihar. Chi conosce bene l’India deve assolutamente visitarlo, se non l’ha già fatto. Chi non conosce l’India… beh è forse meglio che visiti prima qualche altra zona, magari il Rajasthan. Ma del Rajasthan parleremo un’altra volta.

venerdì 14 novembre 2008

CHI OSA ANDARE IN BANGLADESH?


Fare un viaggio in Bangladesh? Mah… non c’è una miseria nera? Che cosa c’è da vedere? In effetti, andare in Bangladesh è una ‘bella’ avventura. Racconto alcuni episodi.
Prendiamo la strada che da Calcutta va a Nord verso il Sikkim. Arriviamo fino a Malda (English Bazar). Malda, nel Bengala Occidentale (India), è famosa per i suoi manghi. Sono i migliori manghi dell’India, se non di tutta l’Asia. L’albero del mango è molto bello. Le foglie hanno un intenso color verde. E’ emozionante vedere chilometri e chilometri di manghi. E’ difficile recarsi da quelle parti durante la raccolta dei manghi, perché si raccolgono in giugno e luglio quando il clima è insopportabile, sia per il caldo sia per l’umidità. E’ il periodo che precede l’inizio dei monsoni, che da quelle parti sono molto intensi.
La strada da Calcutta a Malda è stretta e molto trafficata, perciò lunga e tediosa. I dintorni di Malda però sono fantastici. Malda è un paese polveroso (nella stagione secca), fatiscente e sporco. Inoltre, essendo su una strada di grande comunicazione, è molto rumorosa e piena di gas di scarico dei camion. Nel 2002, quando ci siamo andati, c’era un brutto albergo (ci sarà ancora), sporco e fatiscente con bagni praticamente inservibili.
Crisi generale! Sono andato a vedere un altro albergo che sembrava molto più nuovo, dall’altra parte della strada, ma le camere erano talmente piccole che non ci stava dentro neppure una valigia. Era nuovo, forse aperto da qualche mese, ma stava già cadendo a pezzi. L’unico ‘vantaggio’: i pavimenti di ceramica e non la moquette, ma nient’altro. Così siamo rimasti nel nostro albergaccio.
Oltre alla campagna rigogliosa si trovano dei monumenti inaspettati. La moschea di Adina è affascinante perché è stata costruita con materiale proveniente da templi indù. La fusione degli elementi islamici e indù rende la costruzione veramente magica.
Non lontano si trova Gaur, ex-capitale del Bengala sotto i re indù delle dinastie dei Pala e dei Sena. Per un certo periodo fu una fiorente città commerciale, centro d’arte e di scienze e di una corte sfarzosa sotto il sultanato di Delhi. Ci sono delle moschee notevoli, sempre con la fusione di elementi indù e islamici veramente straordinari. Insomma, di fronte a tanta bellezza e arte abbiamo dimenticato l’albergo orribile!
Partiamo per il Bangladesh. Malda è a pochi chilometri dal confine. Verso il confine c'è una lunga fila di camion fermi in attesa di passare la frontiera, credo almeno per 8 km. Un lato della strada è libero e ci muoviamo. Ma se s’incontra un camion che viene in senso inverso sono guai. In effetti, il nostro mezzo ha dovuto fare delle manovre da Schumacher di tanto in tanto per poter passare e arrivare al controllo. Passiamo la frontiera abbastanza facilmente, anche se la burocrazia fa perdere tempo.
La campagna del Bangladesh è rigogliosa e molto fertile. Quello che colpisce è che ogni fetta di terreno è coltivata, niente è lasciato al caso. I villaggi poi sono sopraelevati su una piccola montagnola di terra, perché quando straripa il maestoso fiume Brahmaputra, i villaggi dovrebbero rimanere appena fuori dall’acqua. Sentiamo quasi ogni estate le alluvioni che colpiscono questo paese.
Il Bangladesh è quasi tutta pianura. Potete immaginare come, durante i monsoni, il Brahmaputra si gonfia d’acqua, che scende giù vorticosamente dall’Himalaya. Ma il grande fiume trasporta ricchi depositi e minerali e permette ai contadini di praticare un’agricoltura intensiva. Sembra una contraddizione: le alluvioni portano la morte, ma senza non ci sarebbe la vita. E’ una specie di compensazione. Strano a dirsi ma è così.
Viaggiavamo in due o tre mini-bus. Che paura! Gli autisti guidano come pazzi anche perché c’è pochissimo traffico. Le strade sono, nel complesso, larghe e ben tenute, una cosa che non avrei mai pensato. Dopo ogni monsone devono rifare il manto stradale.
Dhaka, la capitale, è un incubo, veramente un incubo. Il centro della città invece, grazie agli inglesi (non per caso!), è molto verde, con viali alberati e giardini fioriti e con alcuni edifici coloniali. Per il resto è una bolgia infernale. Sorprendentemente o meno, c’è un museo archeologico di prim’ordine. Il Bangladesh ha importanti siti archeologici, antichi monasteri buddhisti, molto imponenti. Siamo arrivati al sud del paese, ai confini con la Birmania. Da Cox’s Bazar, sulla costa, abbiamo fatto una gita in barca all’isola di Moheskhali. Si prende il motoscafo, tutti pazzi per la velocità… comunque è sempre un’esperienza. Sull’isola non c’è niente di artistico da vedere ma la gente, l’atmosfera, i vecchi battelli di legno, che assomigliano a piccoli galeoni, danno l’idea di tornare indietro nel tempo, nel lontano passato.
A Chittagong, sempre sulla costa, abbiamo avuto un’esperienza interessante. Abbiamo fatto una gita all’interno per visitare un villaggio buddhista. Ad un certo punto ci siamo fermati e una famiglia musulmana ci ha invitato in casa offrendoci da bere. Sulla parete c’era un grande calendario (anno 2002) con la foto delle Torri Gemelle nel momento in cui si sono schiantati contro gli aerei! C’era anche una gigantografia di Bin Laden. Ci siamo guardati in faccia senza commentare… ma la famiglia era molto affabile e ospitale.
Vi racconterò altri aneddoti del Bangladesh in un’altra occasione.

venerdì 7 novembre 2008

WESSEX E THOMAS HARDY

Non esiste più la contea del Wessex, l’antichissimo nome dell’Inghilterra sud-occidentale. Il nome Wessex significa letteralmente Sassoni Occidentali. Il famoso scrittore Thomas Hardy (1840-1928) nacque nel Dorset (antico Wessex). Quasi tutti i suoi libri sono ambientati nel Wessex. Il paesaggio del Dorset è idilliaco e si può ancora seguire le orme di Hardy attraverso le vivide descrizioni dei suoi libri.
Credo di avere letto i suoi libri decine di volte. Mi piace particolarmente “The Mayor of Casterbridge” (il sindaco di Casterbridge), per non parlare del suo libro forse più famoso “Tess of the d’Ubervilles”. Ogni volta che leggo i suoi libri mi vengono i brividi. La sua tecnica narrativa e soprattutto la caratterizzazione dei personaggi colpiscono nel profondo. Ma anche la descrizione dei paesaggi ha una sensualità così forte che tutto il mio essere freme di emozione. Trovo difficile descrivere le emozioni che provo leggendo i suoi romanzi.
Visitare il Wessex (Dorset) oggi fa rivivere i suoi racconti. È rimasto tutto uguale a cent’anni fa. Nei suoi libri ha cambiato i nomi di villaggi, città e luoghi ma essi corrispondono a villaggi, città e luoghi reali. Fare il circuito della campagna dove Thomas Hardy ha ambientato i suoi romanzi è certamente di grande suggestione, un avvenimento da non perdere. Prima di farlo però bisogna leggere almeno un paio di suoi libri. Il capoluogo della contea del Dorset e Dorchester era un castrum al tempo dei romani. La costa è molto varia e straordinariamente bella. Si chiama la “Jurassic Coast”(la costa giurassica), ora patrimonio mondiale per la sua imponente geologia, che presenta una sequenza di superbe rocce giurassiche e di altre formazioni.
Michael’s room è un blog di racconti di viaggio, ma non posso fare a meno di trasmettere uno dei poemi di Thomas Hardy intitolato in Inglese “THE DARKLING THRUSH” (Tordo a Sera in italiano). Illustra la capacità di Hardy di vivere con grande profondità e tristezza i suoi racconti, ma sempre con un raggio di speranza. Alla prossima settimana!

M'appoggiai al cancello d'un boschetto
Quando il gelo era grigio fantasma,
E le scorie d'inverno desolavano
L'occhio morente del giorno.
I rami intrecciati striavano il cielo
Come corde di lire spezzate,
E tutti gli umani all'intorno
Erano presso il loro focolare.
Le linee della terra scheletrita
Sembravano il cadavere del secolo disteso.
Sua cripta sepolcrale la volta nuvolosa,
Il vento suo lagno di morte.
Il palpitare antico del seme e della nascita
S'era rattratto in rigida secchezza,
E ogni spirito sopra la terra
Svuotato di fervore come me.
Ed ecco una voce improvvisa
Scoppiò dagli squallidi rami,
A piena gola, in canto vespertino
Di gioia sconfinata;
Un vecchio tordo, fragile, sparuto, piccolino,
Le piume arruffate dal vento,
In quel modo spendeva la sua anima
Sull'ombra che scendeva.
Così poco incentivo a carole
Di tanto estatica nota
Era scritto sul volto della terra,
Lontano o intorno a lui,
Da farmi pensare vibrasse
In quella sua gioiosa buona-notte
Una lieta speranza, di cui egli sapeva
E io ero ignaro.

SUFFOLK E JOHN CONSTABLE

Quando ho parlato di Norfolk, nell’East Anglia, alla fine del racconto ho citato la contea del Suffolk, che confina a nord con il Norfolk. È nel Suffolk meridionale che è nato il famoso paesaggista romantico John Constable (1776/1837), a East Bergholt. Il Suffolk è una contea luminosa con un cielo speciale, esattamente come nei quadri di Constable. Il villaggio “storico”, nato alla fine del XV e inizio del XVI sec, mantiene ancora oggi il fascino “antico” di un villaggio inglese perduto nel tempo. I quadri di Constable sono ispirati ai paesaggi della campagna circostante. Il quadro “Cottage a East Bergholt” è un insieme di chiaroscuro con un bellissimo cielo movimentato, attraverso il quale si intravede un raggio di luce. Molti suoi quadri sono ambientati vicino o sul fiume Stour, che divide praticamente il Suffolk a nord e l'Essex a sud. Altri famosi quadri sono: “The Mill at Dedham” (il mulino a Dedham), “View on the Stour” (veduta sul fiume Stour), “Dedham Vale” (la valle di Dedham) e “The Hay Wain” (difficile da tradurre, è una specie di carretto trainato da cavalli), ambientato a Flatford sul fiume. Visitare questi posti oggi è come rivivere i soggetti di Constable. Il paesaggio è tuttora incontaminato, il cielo luminoso e le nuvole imponenti. È magico visitare oggi la Valle di Dedham con la copia del quadro di Constable in mano, perché non è cambiato! Forse il quadro più famoso di Constable è “The Cornfield” (il campo di grano), un vero capolavoro di paesaggio rurale della vecchia Inghilterra. La zona dove è nato Constable si chiama oggi: “The Constable Country” e vale la pena andarci. Non si trova molto lontano da Londra, ma preparatevi a entrare in un altro mondo, come una specie di metamorfosi. Da non credere! Nelle vicinanze si trovano il capoluogo del Suffolk, Ipswich, di origine romana, e il capoluogo dell’Essex, Colchester, ritenuto il più antico insediamento romano della Gran Bretagna.

giovedì 30 ottobre 2008

Sikkim

Il Sikkim è un piccolo statarello dell’Unione Indiana incastonato tra Nepal e Bhutan. Fu annesso all’India nel 1975. Precedentemente era un principato indipendente. Dal territorio prevalentemente montuoso, è un vero paradiso per botanici e zoologi per la presenza di flora e fauna insolite e varie. La pianta che mi ha colpito maggiormente è la felce gigante: un capolavoro della natura.
La capitale Gangtok è a dir poco orribile, forse una delle città più brutte dell’India insieme a Indore nel Madhya Pradesh. Di fronte a Gangtok però si erge una montagna magnifica: Kanchenjunga, a 8586 m. L'alpinista inglese Douglas William Freshfield e il fotografo italiano Vittorio Sella effettuarono il primo periplo documentato del monte. Da Gangtok è veramente un capolavoro. Il problema è vedere la vetta… È spesso coperta dalle nuvole e credo che sia molto più difficile vederla che vedere l’Everest. Vedere Kanchenjunga da Gangtok fa dimenticare la bruttezza del capoluogo. È una zona molto piovosa sotto l’Himalaya e anche nel periodo “secco” ci sono spesso brevi acquazzoni. Molti anni fa siamo rimasti bloccati più volte da frane. Una signora del gruppo molti anni fa prese nota dei chilometraggi lungo il percorso e calcolò che navigavamo tra i 10 e i 12 chilometri all’ora! Manco da un pezzo dal Sikkim. Credo che le strade siano migliorate oggi, almeno spero…
Si pratica soprattutto il buddhismo e ci sono molti monasteri e templi. Uno dei monasteri più belli è quello di Rumtek, proprio di fronte a Gangtok. Completamente rifatto negli anni ’60, è la sede di uno dei principali lama del Tibet, il Karmapa. Gli affreschi di Rumtek sono bellissimi, anche se sono stati completamente rifatti negli anni ’60. Ci sono altri monasteri da vedere nella zona. Da Gangtok parte una strada asfaltata che, costeggiando per buona parte il fiume Tista, si snoda tra campi di riso, distese di cardamomo e boschi di flamboyant, i cui fiori rosso fuoco incendiano a tratti il verde della vegetazione. Sì, quello che trionfa nel Sikkim è il verde intenso della vegetazione. Il clima è umido. I monsoni sono abbondanti. Inoltre, essendo incastonato sotto la mole immensa dell’Himalaya, nelle zone più protette il clima d’inverno è molto mite. State attenti alle sanguisughe nelle zone più umide delle vallate!
Direi che il Sikkim è un posto faticoso da visitare. È lontano un po’ da tutto e da tutti. La prima tappa è Darjeeling, che si trova nello stato indiano del Bengala Occidentale. Bellissima l’ascesa a Darjeeling. Meglio in macchina che con la toy train, che impiega una vita per arrivarci. La parte alta di Darjeeling è deliziosa. C’è High Street con case a graticcio e una chiesa anglicana con la torretta: sembra di essere in un villaggio dell’Inghilterra rurale. Purtroppo il resto della città è da dimenticare. Meno male che ci sono i bellissimi giardini da tè e una vegetazione lussureggiante, e tanti, tanti fiori. Nella parte “coloniale” di Darjeeling c’è un albergo di altri tempi chiamato Windermere, che è il nome di un lago che si trova in Cumbria, nel nord-ovest dell’Inghilterra. È un pezzo di storia coloniale. È una vera goduria soggiornarci, prendere un gin tonic al bar oppure bere una tazza di tè Darjeeling nel salotto circondato da suppellettili coloniali. Anche da Darjeeling si vede la montagna Kanchenjunga in distanza. Durante il nostro percorso panoramico, scendendo da Darjeeling per Kalimpong, si ha il massiccio del Kanchenjunga sulla sinistra.
Kalimpong è un altro posto delizioso. Anche qui siamo stati in un albergo “storico”. Era gestito da una signora anglo-indiana, che ha poi lasciato tutto al suo fedelissimo servitore, il quale ha però dimostrato di essere un mascalzone. Un nipote della signora ha quindi dovuto prendere in mano tutto. Ora non so come sia l’albergo. So che sono state costruite camere nuove nel giardino. Vent’anni fa era un rifugio di pace. Si cenava in un bellissimo salone pieno di ricordi e suppellettili. Una raffinatezza nell’apparecchiare con posate d’argento. Un’atmosfera rilassante e sempre con il Kanchenjunga di fronte. Chiedi al servitore di svegliarti all’alba con una buona tazza di tè e, se sei fortunato, vedrai la montagna, con la sua mole di 8.586 m, nella prima luce del mattino!

venerdì 24 ottobre 2008

INDIA PER SEMPRE

Dato che sono un amante dell’India, vorrei raccontarvi alcune esperienze vissute in India meridionale.
Oramai lo stato del Kerala è diventato di gran moda per i moltissimi centri ayurvedici. Personalmente, essere comparso d’olio, anche se profumato, non mi garba per niente. Il paesaggio del Kerala è tropicale: molto verde, pieno di laghi e corsi d’acqua. Sembra di essere sull’isola di Giava in Indonesia. Cochin (ora chiamata Kochi) è particolarmente bella, a mio parere. La città “storica” è un misto di portoghese, olandese e britannico. Fu occupata dai portoghesi all’inizio del XVI sec. e credo sia stato il primo centro colonizzato dagli Europei nel subcontinente indiano. In seguito, la città cadde prima sotto il controllo degli Olandesi e poi sotto il regno di Mysore, infine sotto la Gran Bretagna.
Camminare per le strade nella parte vecchia è un vero piacere. Ci sono degli edifici incantevoli. L’atmosfera è rilassante. Le chiese sono molto interessanti, perché contengono la “storia” degli Europei che hanno occupato questa terra, come la chiesa portoghese di San Francesco (metà XVI sec.). L’interno è interessante perché ci sono molte pietre tombali di illustri personaggi portoghesi. Inoltre c’è il monumento a Vasco de Gama. Il suo corpo venne poi trasportato a Lisbona.
Una delle cose più belle a Cochin è il cosiddetto “Palazzo Olandese”, che contiene fantastici affreschi raffiguranti soprattutto la storia epica del Ramayana. A mio parere sono di grande qualità, ma bisogna conoscere un po’ la storia per apprezzarli maggiormente. Cochin vanta anche una sinagoga ebraica.
I templi del Kerala hanno uno stile completamente diverso rispetto ad altre zone dell’India: l'architettura in legno del Kerala è un unicum in India e nel mondo. I templi così costruiti presentano un’essenziale bellezza e semplicità delle forme. Spesso il santo sanctorum è circolare, con rappresentazioni lignee di fattura eccezionale. Molti templi del Kerala sono interdetti ai non indù. Soltanto pochissimi sono aperti agli stranieri. In quelli “aperti”, gli uomini devono togliere la camicia e andare a torso nudo! A Padmanabhapuram, ex-capitale del principato di Trevancore, si trova un magnifico esempio di palazzo dei sovrani realizzato in legno nello stile tipico del Kerala, con i caratteristici tetti a doppio spiovente, finestre con frontone e lunghi corridoi. Stupendo!
Negli anni ’80 e inizio anni ’90 facevamo un’India meridionale spettacolare praticamente da Belgaum in Karnataka, tutto via terra, fino a Madras (ora Chennai), capoluogo del Tamil Nadu. Era un “tour de force”, ma un viaggio incredibilmente ricco, sia per la qualità e che per la quantità di monumenti visti, soprattutto di templi. Mi ricordo che, in uno dei tanti viaggi, giunti alla fine del percorso a Mahabalipuram, una sessantina di chilometri a sud di Madras, una partecipante era talmente stufa di vedere templi indù che decise di rimanere in albergo, un bellissimo albergo sulle rive dell’oceano indiano, per riposarsi e godere del mare e della spiaggia. E pensare che i monumenti di Mahabalipuram sono tra i più belli dell’India del Sud!
Mahabalipuram fu un importante centro portuale della dinastia Pallava. La cosa più bella in assoluto del complesso è “la discesa del Gange”, un enorme bassorilievo all'aperto che rappresenta la discesa della dea Ganga sulla terra, resa possibile dall'intervento di Shiva. Probabilmente il monumento più famoso del complesso, il cosiddetto “tempio sulla spiaggia” costruito con blocchi di pietra. Purtroppo è molto rovinato a causa della salsedine e personalmente non lo trovo esaltante. La signora, vedendo il nostro entusiasmo, si è poi pentita amaramente di non esserci venuta!
Il percorso di questo mitico viaggio in India del Sud (o “ubriacata” di templi) includeva una cittadina di montagna, Ooty. La salita e la discesa da Ooty sono spettacolari, c’è una varietà di piante e alberi veramente sorprendente: il caucciù (noto come l’albero della gomma), l’albero della pioggia, l’albero del pane, piantagioni di caffè e, più in alto, piantagioni di tè. Ci siamo fermati in un chiosco proprio in mezzo alle piantagioni e abbiamo bevuto un’ottima tazza di tè (broken orange pekoe). Ooty era una stazione climatica di montagna ai tempi dei britannici. Ci sono un paio di alberghi “coloniali” che sono una meraviglia! Nel centro di Ooty si trova un bel giardino botanico con piante rare. In realtà c’è poco da vedere, ma l’atmosfera è molto tranquilla, proprio come nella campagna inglese, anche se Ooty è a 2000 metri (molto più alto della montagna più alta della Gran Bretagna, Ben Nevis in Scozia, che svetta a 1344 metri!).
In quegli anni (erano gli anni ’80) le strade in India meridionale erano tremende e piene di buche. Non parliamo poi del “traffico” caotico: carretti trainati da bufali o buoi, biciclette, carri trainati a mano, animali e alcune macchine e camion. Gli spostamenti mettevano a dura prova. Anche alcuni alberghi erano tremendi, come quelli di Badami e Vijayanagar, modestissimi, direi “cessi”, da arrivare alla sera e ripartire alle 5 del mattino. Comunque, anche negli alberghi più scalcagnati, si mangiava sempre benissimo. Per visitare siti di grande bellezza si sopportavano i disagi e, stranamente, ritornando oggi negli stessi posti, mi sembrano molto diversi. Questi viaggi privi di confort diventano, col tempo, mitici e irripetibili.
In un altro viaggio più recente siamo arrivati alla punta dell’India, a Cape Comorin o Capo Kanyakumari (stato di Tamil Nadu). È un luogo importante, un misto di natura, mito, storia e spiritualità, che deve il suo “fascino” alla sua posizione. Si trova infatti sulla punta estrema del subcontinente indiano, è bagnata da tre mari (il Mare Arabico, l’Oceano Indiano e il Golfo del Bengala) che si incontrano e da lì si può vedere il sole sorgere e tramontare sul mare. A parte questo, la città non vale praticamente niente, è un postaccio puzzolente e stare tutto il giorno per vedere l’alba e il tramonto è veramente eccessivo. Ma sono contentissimo di esserci stato e ci tornerei. Il fatto di essere sulla punta più meridionale del sub-continente indiano è un’emozione. Anche se a volte uso delle espressioni poco ortodosse, l’India per me è sempre l’India! Con tutte le sue contraddizioni e stranezze, è sempre impareggiabile. Ci sarà ancora molto da dire sull’India prossimamente!

venerdì 17 ottobre 2008

Norwich e la contea di Norfolk: la campagna inglese

La settimana scorsa ho parlato della Repubblica Kirghisa e ho detto che la vetta più alta è Kurumdy, al confine tra Cina, Tagikistan e Repubblica Kirghisa (6813 m), ma mi sono sbagliato. La vetta più alta è Lenin Peak (7134 m), al confine tra la Repubblica Kirghisa e il Tagikistan, sempre appartenente alla catena montuosa dell’Arka Alai. La foto è presa da Sary-Tash, vicino alla casa dove abbiamo pernottato, e la vetta più alta è proprio il Lenin Peak! Chiedo scusa per l’imprecisione.

Ho già parlato della campagna inglese e di St. Alban’s nella contea dell’Hertfordshire, non lontano da Londra, in un articolo precedente. Avevo promesso di scrivere ancora sull’argomento. Eccoci!
Oltre a Londra, che oramai non è più inglese, ma altamente cosmopolita e globalizzata, tutti conoscono, per esempio, le città di Oxford, Cambridge, Stratford-upon-Avon, Bath, Brighton e posti famosi come Stonehenge, Hampton Court, Windsor e Blenheim Palace. Sono luoghi molto “canonici”, che vengono visitati ogni anno da migliaia di turisti stranieri. Ma c’è un’Inghilterra inesplorata (forse è meglio parlare di Isole Britanniche per non dimenticare Scozia, Galles a Irlanda del Nord).
Prendete per esempio la contea del Norfolk, nella regione orientale dell’East Anglia. È una contea isolata, nel senso che non si trova lungo le strade di grande comunicazione. Bisogna proprio andarci apposta. Il capoluogo si chiama Norwich, denominata “a Fine City”. Ai Normanni si devono i due edifici più importanti: il castello e la cattedrale. Norwich venne sostenuta per molto tempo da ricchi mercanti, che ne aumentarono la prosperità e il prestigio. L'attività più importante della città era la tessitura della lana. Nel XVI secolo, grazie alla presenza in città di tessitori olandesi (fiamminghi), Norwich incominciò a esportare i suoi filati e i suoi vestiti in tutta Europa.
È una delle poche città delle Isole Britanniche che vanta una piazza centrale con un mercato permanente all’aperto, Market Place, dove sorgono la City Hall e l'Old Guildhall. Si tratta della nuova e della vecchia sede del municipio. L'Old Guidhall è stato costruito all'inizio del '400 e rifatto nel '500. Sull'altro lato della piazza c'è la chiesa di Saint Peter Mancroft, in stile gotico. Le zone più antiche della città sono Elm Hill, una delle più belle strade d'Inghilterra, e Tombland, la vecchia piazza del mercato sassone, presso la cattedrale. È un quartiere magico lungo vicoli affiancati da antiche case. Norfolk è una contea prettamente agricola. Ebbe una notevole importanza, verso la metà del XVIII secolo, nella storia delle “enclosures”, cioé nel passaggio dal sistema dei "campi aperti" in prevalenza di proprietà collettiva al sistema di proprietà privata del terreno, detto appunto sistema di Norfolk.
Una delle parti più suggestive della contea è North Norfolk, affacciata sul Mare del Nord. Venendo da Norwich verso Cromer (una cittadina sulla costa settentrionale della contea che fu resa famosa nel periodo vittoriano come centro balneare) si attraversano paesaggi bellissimi: campi coltivati, folti boschi, piccoli villaggi, stradine che si perdono nelle campagne. Quello che colpisce è la ruralità del percorso e la luminosità del cielo, anche quando è coperto. Si pensa che East Anglia sia completamente piatta. Non è vero. Lungo la costa del North Norfolk da Mundesley a Sheringham, per esempio, si trova un’altura boscosa che scende verso il mare. Cromer non è famosa soltanto per l’architettura vittoriana ma anche per i suoi granchi ‘giganti’ noti come “Cromer crabs”. La cittadina si trova su un piccolo sperone sopra il mare. La parrocchiale di Cromer, San Pietro e Paolo, ha bellissime forme gotico-perpendicolari con una torre particolarmente alta ed elegante. Mantiene ancora il carattere vittoriano un po’ delabré, ma proprio questo rende la cittadina “da vedere”.
Una curiosità: Cromer è diretta verso il polo nord; se si traccia una linea da Cromer al polo nord non c’è nessun ostacolo in mezzo, in altre parole non s’incontra mai terra ma soltanto mare! Chissà che freddo! Quando soffia il vento da est o da nord in inverno il freddo è penetrante, ma bisogna anche dire che l’estate è molto soleggiata, la presenza di sole è più alta della media in Gran Bretagna e piove relativamente poco. Non ci crederete ma è proprio così!
Dopo Sheringham la costa diventa bassa e, seguendola verso Hunstanton, i villaggi sono rimasti fermi nel tempo. Cley-next-the-Sea per esempio non è più sul mare aperto, che si è ritirato. Per arrivarci bisogna camminare un miglio attraverso un terreno paludoso. C’è tutto un sistema complesso di canali di drenaggio. Il villaggio è delizioso. Ci sono delle case con un’interessante mescolanza di architettura georgiana e fiamminga. E pensare che Cley era un porto commerciale tra i più importanti della costa che si affaccia sul Mar del Nord! Sembra di ritornare indietro nel tempo di almeno 300 anni.
Vicino si trova Wells-next-to-sea da dove si può prendere un battello per vedere le foche proprio sulla punta dell’estuario. Le spiagge sono sabbiose e tra le più belle della Gran Bretagna. Tutta questa zona costiera è protetta dalla National Trust. Si trova un santuario di uccelli migratori. Da queste parti è nato l’ammiraglio Nelson (Lord Nelson), proprio a Burham Thorpe.
Perché parlo con tanto entusiamo del Norfolk? Perché quando ero piccolo i miei genitori mi portavano in vacanza a Cromer tutti gli anni e l’amore per questa nascosta parte dell’Inghilterra mi è rimasto nel cuore. Non nascondo il fatto che, quando dovrò lasciare Viaggi di Cultura e andare in pensione, mi piacerebbe moltissimo trasferirmi a Cromer!
Norfolk è anche famosa per le sue grandi ville. Prima di tutto c’è Sandringham House, nel Norfolk occidentale, verso King’s Lynn, residenza estiva della famiglia reale; poi Holkham Hall, dimora dei conti di Leicester in stile palladiano (visitabile) e Blickling Hall, in stile giacobeo, con mattoni a vista (visitabile). I giardini di questi palazzi sono fantastici e si possono fare tanti percorsi a piedi.
Ho parlato con entusiamo del Norfolk, ma un’altra contea dell’East Anglia è Suffolk, altro gioiellino poco conosciuto. Il famoso pittore paesaggista John Constable (1776-1837) è nato nel Suffolk. Le sue opere rispecchiano il paesaggio di questa contea che, miracolosamente, è rimasto tale quale fino ad oggi, o quasi. Ma di questo ne parleremo un’altra volta.

venerdì 10 ottobre 2008

Viaggio in Asia Centrale

Ultime notizie: il racconto di viaggio è stato scritto prima del forte terremoto che ha colpito la Repubblica Kirghisa alcuni giorni fa, in una zona impervia e isolata vicino a Sary-Tash. In realtà, ci sono state due forti scosse, una dalla parte kirghisa e l’altra dalla parte cinese, entrambe a circa 60 km da Sary-Tash. Ho avuto notizie dirette e so che non ci sono state vittime a Sary-Tash, soltanto qualche crepa ma nessun crollo. Durante il viaggio abbiamo dormito a Sary-Tash, quindi ero molto preoccupato per la famiglia che ci ha ospitato e per gli altri abitanti. Il villaggio colpito invece si chiama Nura, dove sono decedute 74 persone. Il villaggio è stato completamente raso al suolo. Dispiace veramente tanto.

Lo scorso agosto 2008 ho accompagnato un viaggio in Asia Centrale della durata di 26 giorni. È stato un ottimo gruppo, molto paziente e collaborativo. Il viaggio ha toccato tre paesi: Cina, Repubblica Kirghisa e Uzbekistan. Da Urumqi, il capoluogo della provincia autonoma uigura dello Sinkiang (Xinjiang), siamo arrivati all’oasi di Turfan (Turpan), una depressione sotto il livello del mare. Di pomeriggio c’erano 46 gradi. Io soffro il caldo, ma il calore di Turfan mi ha asciugato il corpo e tolto tutti i dolori!
Turfan è cambiata molto in questi ultimi anni. È quasi irriconoscibile. Il percorso fino alle grotte buddhiste di Bezeklik è stupendo. Le grotte si trovano nascoste in una stretta valle circondata da montagne nude e sabbiose. Nella stretta valle lungo il fiume si trova un’oasi. I colori, soprattutto di pomeriggio, sono bellissimi. Alcuni archeologi occidentali, soprattutto Sir Aurel Stein e Albert von Le Coq, spogliarono le grotte dagli affreschi. Ora si trovano nei musei di Londra, Berlino e San Pietroburgo e gli affreschi che rimasero furono “saccheggiati” dalle guardie rosse durante la rivoluzione culturale alla fine degli anni ’60 e all’inizio degli anni ’70. Purtroppo, in situ, c’è poco da vedere. Fanno vedere poche grotte, cinque o sei in tutto. Un paio di grotte sono ancora piuttosto belle, ma purtroppo abbastanza rovinate. Peccato!
Il viaggio segue la “Via della Seta” tra la catena montuosa del Tian Shan da una parte e il bacino del Tarim dall’altra. Si arriva a Kashgar (di cui ho già parlato più volte). Ora comincia la parte più “avventurosa”: l’ingresso nella Repubblica Kirghisa. Da Kashgar si sale verso il confine, in mezzo a montagne colorate soprattutto di rosso. Comincia a piovere, si vedono attraverso le nuvole vette innevate. Fa freddo! Poi il cielo si apre, le nuvole se ne vanno e il cielo diventa azzurro e l’atmosfera tersa. Arriviamo al confine cinese. Scarichiamo le valigie e passiamo agevolmente la dogana (soltanto una valigia viene aperta). È tutto molto ben organizzato. L’immigrazione (controllo passaporto) è abbastanza veloce. Ricarichiamo le valigie sul nostro pullman cinese, che ci porta a circa sei o sette chilometri al confine della Repubblica Kirghisa. Smontiamo in mezzo alla strada, prendiamo le nostre valigie e camminiamo in discesa (meno male) per circa 200 metri. Fortunatamente il tempo è bello. Non oso pensare se avesse piovuto, sarebbe stato un verso disastro. Aspettiamo circa venti minuti nell’attesa dei nostri tre pullmini kirghisi.
Incontriamo un gruppetto di neozelandesi che vanno nel Tagikistan per fare trekking e, poiché la loro macchina non arriva, diamo loro un passaggio fino al controllo passaporto nel villaggio a pochi chilometri di distanza. Il manto stradale è sempre bello come in Cina e comincio a sperare... so per esperienza che le strade kirghise di montagna sono terribili. In effetti, pochi chilometri dopo il villaggio dove abbiamo “scaricato” i neozelandesi, la strada diventa sterrata e poi una sassaia! Percorriamo 70 km in tre ore! Ma il paesaggio è così bello e grandioso che il fondo stradale diventa secondario rispetto al paesaggio incredibile che ci circonda. Purtroppo con la fretta non abbiamo caricato bene le valige e ci cadono addosso. Più tardi sistemo le valige in maniera più razionale. Torniamo al paesaggio. Da una parte ammiriamo la catena montuosa di Arka Alai, con vette innevate da 5000 e 6000 metri. La vetta più alta si chiama Kurumdy, al confine tra Cina, Tagikistan e Repubblica Kirghisa (6813 m). Sotto di noi c’è un immenso altopiano verde dove le bestie brucano durante la stagione estiva. Arriviamo infine a Sary Tash, un paese relativamente nuovo.
Fu fondato credo negli anni ’50, quando hanno cominciato a costruire la strada. È un paese ordinato con i tetti spioventi di lamiera. Stanno asciugando il fieno sui tetti. Nel villaggio raccolgono lo sterco delle mucche e fanno ordinate cataste. Lo sterco viene usato come combustibile. Dormiamo in una casa privata. I servizi sono rudimentali e dormiamo in comunità divise in tre stanze. Dormiamo sui tipici materassi in terra con coperte variopinte. La signora di casa è cordiale e pulita e le sue bimbe sono deliziose. Ci prepara la cena, il pilaff, che va benissimo. Serve delle albicocche sciroppate che sono la fine del mondo.
La notte passa tranquillamente e ripartiamo. L’arrivo nella Repubblica Kirghisa è stato un po’ traumatico a causa delle strade (direi piste, in alcuni casi quasi mulattiere) infami, delle valigie accatastate nei pullmini piuttosto stretti, della sistemazione in case private senza comodità, ma il ricordo rimane molto vivo. Tornerei a Sary Tash domani e ci starei qualche giorno.
La discesa ad Osh è regolare. Sempre paesaggi belli, formazioni rocciose straordinarie, colori da non credere, ma la strada è sempre terribile, meglio della prima parte, ma mette a dura prova i nervi. Arriviamo ad Osh nelle propaggini della valle di Fergana. Siamo in un albergo decente proprio di fianco al mercato. Il mercato di Osh è straordinario, probabilmente più bello di quello più famoso di Kashgar. Anche se siamo ancora nella Repubblica Kirghisa, l’Uzbekistan è a pochi chilometri e il quaranta percento della popolazione di Osh è uzbeka. I kirghisi sono sostanzialmente nomadi, e anche se alcuni si sono trasferiti ad Osh (una tattica del governo per contrastare l’ex-maggioranza uzbeka), nel loro intimo il nomadismo fa parte integrale della loro vita. La Repubblica Kirghisa è un paese per alpinisti e trekkisti. Chi fa un percorso “culturale” deve adattarsi alla mentalità poco imprenditoriale. Cambierà? Probabilmente il fascino del posto è proprio questo: lo spirito libero. Perché devono adattarsi a noi anziché noi adattarci a loro?
Credo che sia significativo questo semplice proverbio: "Si può viaggiare non per fuggire da se stessi, cosa impossibile, ma per ritrovarsi”. Riusciamo a “ritrovarci” in alberghi di super-lusso? Non credo, almeno non il sottoscritto. Affrontare esperienze particolari ci tempra e ci fa capire come siamo dentro. Ritornare alla semplicità ci può premiare. Comunque, mi rendo conto che sono considerazioni molto personali. Ritornando al viaggio, da Osh entriamo in Uzbekistan. Ma di questo vi parlerò un’altra volta!

giovedì 2 ottobre 2008

Tibet


Il Tibet ha qualche cosa di speciale. Forse è l’aria tersa e cristallina, come difficilmente si trova da altre parti, forse è il paesaggio aspro e maestoso, forse sono i monasteri popolati da tanti monaci, ma probabilmente è tutto l’insieme di queste cose che rendono unico il Tibet.
L’arrivo a Lhasa in aereo è emozionante. In realtà bisognerebbe arrivare via terra o dal Nepal o dal Qinghai, i paesaggi sono incredibili ma anche incredibilmente faticosi.

L’aeroporto di Lhasa dista una settantina di chilometri dalla città. Il primo impatto è forte. Lhasa è cresciuta all’inverosmile in questi ultimi anni. Attorno al centro ‘antico’ tibetano si trova la città moderna. Una volta il Potala era fuori Lhasa, ma ora c’è un quartiere completamente nuovo che si estende a perdita d’occhio. Dal Potala stesso si ha una veduta di questa enorme espansione. Appena siamo arrivati a Lhasa, dopo un breve salto in albergo, siamo schizzati fuori per visitare il centro ‘storico’. La piazza si anima moltissimo nel tardo pomeriggio, piena di pellegrini che visitano la cosiddetta cattedrale tibetana, il Jokhang. I pellegrini fanno il percorso del Barkhor: un percorso in senso orario, nelle stradine che circondano il Jokhang. È bellissimo seguire i pellegrini. Molti fedeli fanno il percorso genuflettendosi continuamente e impiegano un bel po’ di tempo per fare il giro completo.

Poi partiamo per Gyantse. Prendiamo la vecchia strada che fiancheggia il lago Yamdrok-tso. Prima di arrivare al lago superiamo il passo di Kamba-la (4800 metri slm circa). La veduta dall’alto sul lago è spettacolare: nel sole è di un turchese intenso. Scendiamo sul lago e mangiamo i nostri panini. Proseguiamo per Gyantse e superiamo un altro passo, Karo-la (oltre 5000 metri). Siamo fotunati! La giornata è limpida, senza nuvole e vediamo la maestosa montagna (sembra più una catena montuosa anziché una vetta ) di Nojin Kangstang, che supera i 7000 metri. È uno dei punti più belli del viaggio. II ghiacciao è incredibile, sembra di toccarlo…
Questo passo ricorda il colonnello Francis Younghusband e lo scontro con i tibetani. Nel 1904 la Gran Bretagna spedì forze militari indiane, al suo comando, per sanare una controversia confinaria, che di fatto significò l'occupazione militare del Tibet, anche a seguito dell'interesse per il Tibet manifestato dallo Zar di Russia. In risposta a questa operazione militare il ministro degli esteri cinese affermò per la prima volta in modo esplicito che era la Cina ad avere sovranità sui territori tibetani.


Ritorniamo al nostro viaggio. Da questo punto il nostro viaggio diventa difficile. Stanno facendo una imponente centrale elettrica e la strada già sterrata sta diventando un pantano per i molti camion che ci passano. Arriva un temporale, passa velocemente, ma ad un certo punto il nostro pullmino Toyoto di 17 posti rimane impantanto. Il nostro autista, furbo, accelera e la situazione peggiora. Una ruota affonda sempre di più nel terreno fangoso. Scendiamo. Cosa facciamo? Passa un pullmino di tedeschi. Si fermano. Io e alcuni forzuti tedeschi ci diamo da fare: cerchiamo di sollevare il nostro pullmino dal lato della ruota affondata nel fango. Niente da fare. Il pullmino dei tedeschi è pieno e non possono darci un passaggio. Passano pochissimi mezzi, a parte qualche camion. Siamo oltre i 3500 metri, forse a quasi 4000 metri, e dopo lo sforzo mi viene un mal di testa talmente forte che non connetto più. Sto malissimo. Maurizio Paolillo, assistente culturale, è preoccupato. Ferma una jeep con una coppia di americani e chiede se mi possono portare a Gyantse. Nonostante le mie condizioni ‘precarie’ insisto per rimanere. Come faccio ad abbandonare il gruppo? Il gruppo insiste e vengo caricato. La destinazione finale della coppia di americani è il campo base dell’Everest. Hanno tutte le attrezzature e varie medicine. Mi danno una pillola, non chiedetemi cosa, ma quando arrivo a Gyantse, all’albergo, sto meglio. Vado in camera ma penso al gruppo. Non posso rimanere ad aspettare. Stanno arrivando diverse jeep con turisti che si fermano una notte a Gyantse. Chiedo agli autisti, naturalmente con un compenso, di venire con me a prelevare il gruppo. Se li incontriamo lungo la strada mentre stanno arrivando bene. Procediamo, ma niente, non incontriamo nessun mezzo lungo il percorso. Viaggiamo per più di un’ora. Poi vediamo in distanza dei fari. È certamente il nostro pullmino. Sì, finalmente abbiamo trovato il nostro pullmino. Si era impantanato ancora. Erano le 10 di sera, buio pesto. Maurizio Paolillo, quando ha visto le luci delle jeep, ha esclamato: “È Mike, è venuto a prenderci”.
Così stretti, stretti, ci trasferiamo nelle jeep. Le valigie viaggiavano separatamente, perciò erano già arrivate in albergo. Arriviamo verso mezzanotte. Il ristorante ha aspettato il nostro arrivo e così abbiamo cenato.

Le visite del giorno dopo sono a Gyantse, walking distance. Comunque, mentre usciamo, arriva il nostro pullman. Credo che Gyantse sia il posto più bello del Tibet, cioè l’insieme di monumenti: lo spettacolare monastero di Pelkor Chode circondato da una cinta di mura che segue l’andamento della collina alle spalle del complesso, il Kumbum ricchissimo di bellissimi dipinti e il forte di Gyantse. La salita è dura ma la vista su Gyantze e sui monumenti è mozzafiato. Da Gyantse, prima di prendere la strada per Shigatse, abbiamo fatto una deviazione per un monastero che normalmente non si visita e che dista dalla strada maestra circa 20 km. Non mi ricordo il nome ma il posto è incantevole. È qui che ho trovato una chiarezza cristallina nell’aria, simile solo a quella della Tierra del Fuego. Sembra di toccare le montagne circonvicine e le torri di avvistamento sulle rupi, talmente sono nitide sopra di noi.

Una sensazione di grande gioia e pace.

venerdì 26 settembre 2008

Bhutan


Oggi vi parlerò del Bhutan, un paese affascinante. Non raggiunge le bellezze naturali di Nepal, Ladakh o Karakoroum ma l’atmosfera serena, la gente sorridente e cordiale, i villaggi attraenti, i monasteri interessanti e le sue tradizioni colpiscono nel profondo.

Il Bhutan è un paese incastonato tra India e Cina. Bisogna arrivare via terra per apprezzarne la posizione geografica. È molto più faticoso e lungo ma ne vale veramente la pena. Si arriva dallo stato del Bengala Occidentale.
Vent’anni fa ho visitato per la prima volta il Bhutan con un nostro gruppetto di viaggi di cultura. Dalla fertilissima umida piana del Bengala nord orientale, pullulante di vita, si arriva alla cittadina indiana di Jaigaon, un postaccio al confine con il Bhutan. C’è una porta che divide Jaigaon da Phuntsholing, dalla parte bhutanese. Sembra tutto molto informale. Quando si entra dalla porta d’ingresso si entra in un altro mondo, un mondo tranquillo, più soave, direi. Non che sia un bel paese, è di frontiera, c’è poco da vedere ma si respira un’aria di…di buddhità!
Da Phuntsholing inzia la montagna, e non solo. Guardando la cartina si nota che, dove finisce la piana del Bengala in India, i monti si stendono verso nord e improvvisamente raggiungono i 4000, addiruttura i 4700 metri slm. Il Bhutan è un paese interamente montagnoso. Non ci sono pianure, neanche piccole.
Ritorniamo al nostro viaggio. Da Phutsholing si sale. La prima parte è piena di curve a gomito e sotto si vede la piana del Bengala in tutta la sua grandezza. Presto entriamo nella nebbia, causata dall’umidità che sale dalla piana. Ad un certo punto si lascia la vegetazione sub-tropicale del versante sud per arrivare ai coniferi a 2500 metri slm. Il paesaggio cambia radicalmente e si attraversano villaggi deliziosi. La nebbia non c’è più, ma appare un cielo limpido e pulito con nuvole bianchissime che corrono nel cielo. Sembra di essere nei Grigioni in Svizzera.
Ad un certo punto si lascia la strada principale che conduce alla capitale Thimphu per prendere una strada laterale che conduce alla valle di Paro. Che meraviglia! Si trovano monasteri abbarbicati sulle alture, villaggi incantevoli, case affrescate e balconi in legno. Si arriva alla cittadina di Paro, che si trova nella valle omonima. È idilliaca. Ma è solo l’inizio.
Il paesaggio non è fantastico come quello del Ladakh o del Nepal e non assomiglia alla grandezza delle montagne del Karakoroum. In alcuni casi sembra di essere nella Val Brembana nel Bergamasco (niente da eccepire, a me piacciono le valli del bergamasco e del bresciano). In maggio ci sono i rodendendri in fiore e questo rende il paesaggio ancora più bello, ma non molto diverso dal nostro.
Il bello è dato dall’insieme dei villaggi, dei monasteri e soprattuto degli dzong. Questi funzionano da centri religiosi, militari, burocratici, amministrativi e sociali dei vari distretti. Ogni distretto ha il suo dzong. Lo dzong di Thimphu è grandioso, anzi, è lo dzong più celebre del Bhutan e viene chiamato Tashichho Dzong. È il più grande monastero del regno: ci sono tutti i ministeri e l’assemblea nazionale.
A proposito, i cittadini del Bhutan recentemente si sono recati alle urne per completare l'elezione dei rappresentanti della camera bassa, la cui precedente tornata elettorale si è tenuta nel mese di febbraio, rendendo effettiva la transizione da monarchia assoluta a monarchia parlamentare. Il passaggio di ordinamento è stato voluto due anni fa dall'ex re Jimge Singye Wangchuck, il quale ha abdicato in favore del figlio, emanando una costituzione che entrerà in vigore quest'anno, in base alla quale il re ricoprirà la carica di Capo di Stato ma tutti i poteri saranno delegati al parlamento. Comunque, politica a parte, l’insieme di paesaggi, villaggi, monasteri e dzong rende il paese molto piacevole.
Da Paro proseguiamo verso la capitale, Thimphu e poi verso il centro del paese. Le strade sono buone ma non esiste un rettilineo. Si supera un passo chiamato Dochu-la (“la” vuol dire passo) a 3000 metri slm. Dal passo, tempo permettendo, si ha una veduta stupenda sulla montagna più alta del Bhutan, Kula Kangri (7600), vetta che confina con il Tibet. Siamo fortunati, il cielo è sereno e vediamo tutta la catena innevata che costeggia il confine tra Bhutan e Tibet . Molte vette superano i 7000 metri. Se la giornata è nuvolosa e dal passo non si vede niente, ahimé, non si vedrà più questo spettacolo, perché poi si continua il viaggio verso est e poi verso sud fino a raggiungere l’Assam in India. Tornando a Thimphu una seconda volta magari si sarà più fortunati.
Scendiamo su Thongsa. Ad un certo punto vediamo il paese di fronte, dall’altra parte della valle. Sta diventando buio e si vedono le luci. Siamo quasi arrivati. Ma, in realtà, non siamo vicini. Impieghiamo ancora un’ora perché la strada segue l’andamento della montagna. Perdiamo di vista Thongsa addentrandoci in angoli reconditi della montagna. Pernottiamo in un lodge molto semplice. Margherita Carrara, una partecipante, non riesce a dormire e canta “La Vie En Rose” di Edith Piaff. Ha una bella voce. Molto suggestivo!
Da Thongsa partiamo per la valle di Bumthang. Attraversiamo un altro passo di 3300 metri slm. La valle di Bumthang è il posto più bello del Bhutan, dopo la valle di Paro. È una valle incontaminata. Facciamo delle bellissime camminate, da un monastero all’altro. L’albergo è un bel lodge, sembra di essere sulle alpi, come sensazione. Ogni camera ha il cammino e gli inservienti vengono ad accendere il fuoco, prima di coricarsi. C’è soltanto acqua corrente fredda. Non esiste lo scaldabagno. Gli inservienti arrivano con secchi d’acqua bollente che scaldono sul fuoco a legna. L’atmosfera è meravigliosa. Ora è cambiato, hanno costruito più lodge e c’è l’acqua calda corrente e tutte le comodità.
Rimarrei nella valle di Bumthang per due settimane, ma dobbiamo rientrare. Torniamo verso Thimphu. Non vediamo questa volta la catena innevata dal passo perché pioviggina. Scendiamo fino a raggiungere 800 metri di altitudine e arriviamo alla capitale invernale Punakha. Ci sono dei fiori bellissimi, soprattutto rose, e farfalle colorate grosse come falene. I campi sono ricchi di frumento, ortaggi, frutteti e di ogni ben di dio. Ci sono molti contadini nei campi, che ci salutano cordialmente.
Lo dzong di Punakha è imponente. Quasi tutti gli dzong del Bhutan si trovano in posizioni dominanti, su un’altura, ma lo dzong di Punakha è in pianura. Attraversiamo il vecchio ponte di legno sopra il torrente ed entriamo. Rientriamo a Thimphu e quindi ritorniamo sui nostri passi. Scendiamo verso l’India. A metà discesa incontriamo di nuovo la nebbia e poi sotto di noi la fertilissima piana sub-tropicale del Bengala!
Il viaggio è quasi finito. A Calcutta c’è una coda del monsone. Piove e le strade sono allagate. Vanno soltanto i risciò trainati a mano. Non riusciamo ad arrivare all’aeroporto con le macchine. Riesco a noleggiare un vecchio pullman con le ruote alte e partiamo. Tutto bene ma siamo praticamente gli unici ad arrivare all’aeroporto. Nella pista non c’è acqua così partiamo per Bombay e poi per l’Italia.

giovedì 18 settembre 2008

Il mio secondo viaggio in Cina - 1990

Il secondo viaggio che ho fatto in Cina è stato nel 1990 con una ventina di persone intitolato “Via della Seta”. Allora abbiamo volato British Airways via Londra, un ottimo viaggio, un po’ lunghetto, destinazione Pechino. Dopo Pechino volo per Xi’An e da Xi’An a Lanzhou, capitale del Gansu. Voli in perfetto orario, un miracolo dopo l’anno disastroso del 1988 (vedi il viaggio che ho descritto precedentemente).
Da Lanzhou comincia l’avventura. Alle 22 prendiamo il treno per Jiuquan, nel cosiddetto corridoio del Gansu, dove arriviamo il giorno successivo alle 18 (20 ore di viaggio!). Nelle vicinanze di Jiuquan si trova la cittadina di Jiayuguan. È qui che si vede il fortilizio della grande muraglia. In realtà abbiamo fatto questo lunghissimo viaggio in treno di 20 ore per raggiungere una località di grande interesse: le grotte di Mogao a Dunhuang.
Allora per Dunhuang non c’erano voli e l’unico modo per arrivare era via terra. Credo che ci siano quasi 500 templi scavati nella roccia. Da Jiuquan abbiamo impiegato in macchina circa 8 ore. Siamo partiti al mattino. Era freddo e piovigginava, anche se era il 6 Agosto e eravamo nel deserto del Gobi. Avevamo già imboccato la strada che conduce a Dunhuang quando da una curva arriva un camion in velocità. Ci vede, frena bruscamente e sull’asfalto bagnato sopra uno strato di polvere perde il controllo e viene verso di noi. Il nostro autista ha i riflessi pronti e vira buttandosi in un fosso sabbioso, non pericoloso. Evita il peggio. Il camion ci prende soltanto marginalmente. Arriva la polizia. Mi dispiace per l’autista del camion perché sicuramente gli hanno tolto la patente. Abbiamo chiesto alla polizia di usare clemenza. Stiamo tutti bene, nessuno si è fatto male, ma il pullman ha subito dei danni e non possiamo continuare il viaggio. Aspettiamo e ci riportano in città con altri mezzi. Nel pomeriggio, dopo pranzo, ripartiamo per Dunhuang con due pullmini. A Dunhuang visitiamo le grotte di Mogao (che vuol dire dei mille buddha) .Gli affreschi sono superbi e sono di varie epoche e dinastie. Direi che queste grotte conservano la più grande collezione di arte buddhista della Cina.
Da Dunhuang riprendiamo la strada per la stazione ferroviaria di Liuyuan, un percorso di 2h30 circa attraverso un paesaggio incredibile, desertico, disseminato di montagnole tozze di diversi colori e sfumature dal color sabbia al rosso e nero. Partiamo col treno verso le ore 20 e arriviamo a Turfan, nella provincia cinese del Xinjiang, la mattina seguente, alle 9 circa. Le cuccette non sono male. Turfan o la depressione di Turfan si apre nella parte orientale della catena del Tien Shan e si trova sotto il livello del mare. È un posto magico. Grazie ai torrenti che scendono dalle alte montagne vicine e all’ingegnosità e alla tenacia del popolo uiguro, che ha saputo utilizzare l’acqua infiltrata nelle falde pedemontane creando una perfetta rete di canali sotterranei, Turfan è disseminata di oasi meravigliose. Tutto l’insieme costituisce uno straordinario paesaggio. Il caldo può essere insopportabile e in estate può raggiungere i 45 gradi se la giornata è soleggiata.
Proseguiamo la nostra avventura, in pullman, fino a raggiungere Urumqi, la capitale dello Xinjiang, città industriale e anonima ma con un clima piacevole (d’estate). Da Urumqi prendiamo il volo per Kashgar, famoso nodo carovaniero sulla via della seta. Domenica è ‘market day’. La gente proviene da tutti i villaggi vicini per vendere e comperare. Ne ho parlato più volte di Kashgar. È incredibile vedere la folla, le contrattazioni. C’è di tutto. Una parte molto interessante è il mercato del bestiame. Le capre sono tutte in fila legate insieme con lo spago, per essere vendute. Ci sono anche cammelli, vacche, pecore e galline. C’è la sezione dei sementi, la sezione delle stoffe multicolorate (il costume locale delle donne iugure è molto colorato), il reparto ristoro con centinaia di ristorantini, le macellerie, i barbieri all’aperto, i dentisti con i loro strumenti ‘medievali’ e tante altre cose. Purtroppo il mercato oggi è diventato meno interessante. Oggi è stato diviso in tre località diverse. Esiste ora una struttura permanente moderna. Il mercato del bestiame si è rimpicciolito e non ci sono più i cammelli, o almeno non li ho più visti. Forse la ‘modernizzazione’ del mercato è positiva per gli abitanti, ma per noi turisti la suggestione ‘romantica’ non c’è più.
La città di Kashgar si sta trasformando in una cittadina moderna e monotona. Dove si trova la storica moschea di Id Kah, nel cuore di Kashgar, proprio nella piazza centrale, i cinesi hanno fatto una piazza di pessimo gusto, con i pavimenti di marmo e le nuove case lastricate di ceramica o ‘pietrini’, come dicono a Bologna. Ha certamente perduto il suo fascino.
Ritorniamo verso Urumqi ma questa volta via terra attraverso bellissime oasi ai margini del bacino del Tarim, chiamato anche il deserto di Taklimakan, da un lato, e le maestose montagne Tien Shan dall’altro, che raggiungono anche i settemila metri. Ogni tanto incontriamo torrenti d’acqua che invadono la strada, causati da forti temporali in montagna. L’acqua vorticosa segue il wadi e si riversa sulla strada. Aspettiamo. L’acqua è piena di sabbia. Lentamente il flusso diminuisce e possiamo passare. Oggi c’è una superstrada leggermente elevata rispetto al terreno.
Passiamo per Aksu, una specie di visione che sorge dal deserto. Dal nulla si vede in distanza un insieme di palazzi moderni, una specie di castello di cristallo che si erge in mezzo al niente. Da Aksu si procede verso est per raggiungere le grotte buddhiste di Kizil (molti degli affreschi si trovano al Museo Britannico e a Berlino) e la cittadina di Kuqa. Il paesaggio lungo questo tratto è incantevole. In una giornata chiara si vedono le vette innevate maestose della catena Tien Shan ergere come delle immense torri. Dopo Kizil percorriamo una strada stretta in una gola profonda caratterizzata da stranissime formazioni rocciose aguzze. Nei pressi di Kuqa si trovano antiche città fantasma. Si mimetizzano nel paesaggio, bisogna scoprirle. L’antica città di Subashi si trova incastonata all’ingresso di una gola, ai piedi di montagne aride e grigie (forse perché pioveva), vicina ad un torrente il cui letto si allarga notevolemente man mano che scende a valle. Quando scende, l’acqua arriva vorticosamente. Tutto è di grande fascino. Purtroppo piove a Subashi ma il fascino diventa struggente, il colore della roccia e della terra sabbiosa diventa scuro, il cielo minaccioso di nuvoloni neri che coprono il cielo, insomma da brivido.
Proseguiamo per Korla, città detta ‘dei petrolieri’, ed infine ritorniamo ad Urumqi per proseguire in volo per Pechino. Si potrebbe chiamare questa via “la via del buddhismo” perché il Buddismo raggiunse la Cina attraverso la Via della seta. Una signora, Nora Chiarini, ha definito questo percorso “la via delle angurie” perché ci fermavamo spesso a mangiare l’anguria. Pensava di trovare ancora carovane di commercianti con i loro cammelli e le loro merci, ma purtoppo non ci sono più. Ogni tanto lungo il percorso si incontarno dei cammelli, ma non in marcia versa oriente o verso occidente! Sono lì a fare nulla!

martedì 9 settembre 2008

Ladakh


Il Ladakh è chiamato il piccolo Tibet, e si trova nello stato indiano Jammu e Kashmir. Geograficamente e antropologicamente parte del Tibet e non del sub-continente indiano, il Ladakh è diventato una meta molto popolare in questi ultimi anni, soprattutto tra i giovani saccopelisti.

La prima volta che sono stato nel Ladakh risale al 1987. Ho volato a Srinagar, nel Kashmir, da Delhi e poi in aereo da Srinagar a Leh, un percorso sopra le vette della catena montuosa dello Zanskar. Nella valle di Leh ci sono tanti monasteri da visitare, più e meno belli. Ho fatto rafting sul fiume Indo tra Leh e Nimmu: un percorso molto bello e vario, ma lo raccomando soltanto a esperti perché ci sono un paio di rapide in due anse strette che sono veramente vorticose e c’è un pericolo reale di schiantarsi contro la roccia. Il mio gommone si è sbattutto contro la roccia dalla forza dell’acqua, ma fortunatamente ci siamo liberati senza difficoltà e senza alcun danno. È stata un’esperienza irrepetibile. Dopo le rapide si giunge in acque calme e tranquille dove il silenzio regna in mezzo ad alte pareti rocciose e sotto un cielo azzurro cobalto. Ricorda un’antica lirica giapponese che dice “Scorre tra vortici contro le rocce il fiume, ma poi le acque in uno stagno sostano che rispecchia la luna”.

Riprendo la macchina e proseguo per Alchi, famoso per l’antico complesso templare vecchio di ottocento anni. Il tempio principale contiene murali e sculture incredibili che rivelano uno stile di arte buddhista molto raro per le sue influenze persiane e greco-romane. Arrivo infine al bruttissimo paese di Kargil, la porta d’ingresso per accedere alla valle dello Zanskar. Dormo in un albergo del centro. Aspetto un mezzo che deve arrivare da Srinagar con tutti i viveri per portarmi nella valle dello Zanskar, ma non arriva. Parto con ventiquattro ore di ritardo perché il mezzo è rimasto bloccato in fondo all’orrido che conduce a Drass, strada piena di curve, frequentata da lunghissime colonne militari e a senso alternato.

Finalmente si parte. Dopo circa 4 ore di strada sterrata ci si ferma per fare una passeggiata (direi una sfacchinata più che una passeggiata). La macchina intanto va avanti a preparare le tende e la cena. La passeggiata è in salita, un dislivello di 800 metri, ma ad un certo momento comincia a piovere e il terreno diventa molto scivoloso. Si fa fatica a salire perché si scivola continuamente (forse avevo le scarpe sbagliate), ma una volta sulla cresta la vista ripaga di tutta la fatica. Davanti si trovano le due vette più alte del Ladakh, Nun e Kun, a più di 7000 metri! Il temporale si sta allontando e le nuvole si alzano. Che meraviglia, due montagne gemelle, cariche di neve e ghiaccio! Si vede dall’alto il campo in preparazione. Si arriva bagnati, affaticati ma felici.

Successivamente si raggiunge l’isolato monastero di Rangdum, situato su una collinetta morenica al centro di una valle incredibile, dove la prateria è coperta da innumerevoli stelle alpine. Mi ricordo che il monaco vendeva vecchi (o antichi) arredi del tempio. In realtà si entra nella valle dello Zanskar soltanto dopo aver superato il passo Pensi La (4400 metri slm). Il passo è pieno di marmotte e si sentono distintamente i loro strani versi. Si vedono erette e pronte a scattare, sul declivio della montagna. Poco dopo il passo s’incontra il ghiacciaio di Drung Drung, lungo più di 10 km. Si mette giù la tenda ad Abrang, vicino al fiume, in un prato letteralmente coperto di stelle alpine. Infine si arriva al capoluogo della valle, Padam, un postaccio orribile. Padum un generatore ce l'ha, ma non funziona sempre, funziona un paio d'ore al giorno, se va bene. Ma tanto si dorme in tenda, chi ha bisogno dell’elettricità? In compenso il paesaggio è fantastico.

Sani invece, nelle vicinanze di Padam, è costituito da un bel villaggio tibetano e dall’antico monastero, costruito su una piattaforma pianeggiante della valle. Tutti i paesi prima di Rangdum sono abitati da musulmani sunniti mentre i villaggi della valle sono quasi esclusivamente tibetani. La valle dello Zanskar è abitata da buddhisti. Soltanto il capoluogo Padam è misto, dove metà della popolazione è musulmana. Nelle vicinanze si trovano altri bellissimi monasteri, ad esempio Stongde e Karsha. Dal monastero di Karsha si ha una veduta magnifica sulla valle di Padam e dal monastero si possono vedere le due vette gemelle Nun e Kun. La cosa più bella comunque è camminare. Ogni mattina presto, dopo colazione, si lascia il campo e si procede a piedi. In seguito arriva la jeep che porta al campo successivo.

La valle dello Zanskar ha un clima secco e le montagne sono prive di alberi. In questi ultimi vent’anni hanno cominciato a piantare dei betulli vicino al fiume, ma se non ricevono acqua seccano. La valle dello Zanskar è come un’isola. D’inverno, e credo per quasi otto mesi all’anno, è isolata, i passi chiusi per via della neve. La vita è molto dura.

È interessante visitare una casa tipicamente “tibetana”. Mi ha colpito la cucina grande e piena di utensili di rame. La popolazione buddhista della valle è molto cordiale. Invariabilmente ti offre il tè alla tsampa. La tsampa si ricava dall'orzo tostato, una farina dal sapore che ricorda la nocciola e che può essere consumata in polvere, aiutandosi con le mani, oppure impastata con l'acqua per ottenere grosse palle. La tsampa viene mescolata al tè e al latte con l’aggiunta di zucchero. L’igiene non è il loro forte. Cerco di non berlo, ma quando insistono non posso rifiutare. Lo mando giù a malavoglia e spero che non succeda nulla!