Il Sikkim è un piccolo statarello dell’Unione Indiana incastonato tra Nepal e Bhutan. Fu annesso all’India nel 1975. Precedentemente era un principato indipendente. Dal territorio prevalentemente montuoso, è un vero paradiso per botanici e zoologi per la presenza di flora e fauna insolite e varie. La pianta che mi ha colpito maggiormente è la felce gigante: un capolavoro della natura.
La capitale Gangtok è a dir poco orribile, forse una delle città più brutte dell’India insieme a Indore nel Madhya Pradesh. Di fronte a Gangtok però si erge una montagna magnifica: Kanchenjunga, a 8586 m. L'alpinista inglese Douglas William Freshfield e il fotografo italiano Vittorio Sella effettuarono il primo periplo documentato del monte. Da Gangtok è veramente un capolavoro. Il problema è vedere la vetta… È spesso coperta dalle nuvole e credo che sia molto più difficile vederla che vedere l’Everest. Vedere Kanchenjunga da Gangtok fa dimenticare la bruttezza del capoluogo. È una zona molto piovosa sotto l’Himalaya e anche nel periodo “secco” ci sono spesso brevi acquazzoni. Molti anni fa siamo rimasti bloccati più volte da frane. Una signora del gruppo molti anni fa prese nota dei chilometraggi lungo il percorso e calcolò che navigavamo tra i 10 e i 12 chilometri all’ora! Manco da un pezzo dal Sikkim. Credo che le strade siano migliorate oggi, almeno spero…
Si pratica soprattutto il buddhismo e ci sono molti monasteri e templi. Uno dei monasteri più belli è quello di Rumtek, proprio di fronte a Gangtok. Completamente rifatto negli anni ’60, è la sede di uno dei principali lama del Tibet, il Karmapa. Gli affreschi di Rumtek sono bellissimi, anche se sono stati completamente rifatti negli anni ’60. Ci sono altri monasteri da vedere nella zona. Da Gangtok parte una strada asfaltata che, costeggiando per buona parte il fiume Tista, si snoda tra campi di riso, distese di cardamomo e boschi di flamboyant, i cui fiori rosso fuoco incendiano a tratti il verde della vegetazione. Sì, quello che trionfa nel Sikkim è il verde intenso della vegetazione. Il clima è umido. I monsoni sono abbondanti. Inoltre, essendo incastonato sotto la mole immensa dell’Himalaya, nelle zone più protette il clima d’inverno è molto mite. State attenti alle sanguisughe nelle zone più umide delle vallate!
Direi che il Sikkim è un posto faticoso da visitare. È lontano un po’ da tutto e da tutti. La prima tappa è Darjeeling, che si trova nello stato indiano del Bengala Occidentale. Bellissima l’ascesa a Darjeeling. Meglio in macchina che con la toy train, che impiega una vita per arrivarci. La parte alta di Darjeeling è deliziosa. C’è High Street con case a graticcio e una chiesa anglicana con la torretta: sembra di essere in un villaggio dell’Inghilterra rurale. Purtroppo il resto della città è da dimenticare. Meno male che ci sono i bellissimi giardini da tè e una vegetazione lussureggiante, e tanti, tanti fiori. Nella parte “coloniale” di Darjeeling c’è un albergo di altri tempi chiamato Windermere, che è il nome di un lago che si trova in Cumbria, nel nord-ovest dell’Inghilterra. È un pezzo di storia coloniale. È una vera goduria soggiornarci, prendere un gin tonic al bar oppure bere una tazza di tè Darjeeling nel salotto circondato da suppellettili coloniali. Anche da Darjeeling si vede la montagna Kanchenjunga in distanza. Durante il nostro percorso panoramico, scendendo da Darjeeling per Kalimpong, si ha il massiccio del Kanchenjunga sulla sinistra.
Kalimpong è un altro posto delizioso. Anche qui siamo stati in un albergo “storico”. Era gestito da una signora anglo-indiana, che ha poi lasciato tutto al suo fedelissimo servitore, il quale ha però dimostrato di essere un mascalzone. Un nipote della signora ha quindi dovuto prendere in mano tutto. Ora non so come sia l’albergo. So che sono state costruite camere nuove nel giardino. Vent’anni fa era un rifugio di pace. Si cenava in un bellissimo salone pieno di ricordi e suppellettili. Una raffinatezza nell’apparecchiare con posate d’argento. Un’atmosfera rilassante e sempre con il Kanchenjunga di fronte. Chiedi al servitore di svegliarti all’alba con una buona tazza di tè e, se sei fortunato, vedrai la montagna, con la sua mole di 8.586 m, nella prima luce del mattino!
giovedì 30 ottobre 2008
venerdì 24 ottobre 2008
INDIA PER SEMPRE
Dato che sono un amante dell’India, vorrei raccontarvi alcune esperienze vissute in India meridionale.
Oramai lo stato del Kerala è diventato di gran moda per i moltissimi centri ayurvedici. Personalmente, essere comparso d’olio, anche se profumato, non mi garba per niente. Il paesaggio del Kerala è tropicale: molto verde, pieno di laghi e corsi d’acqua. Sembra di essere sull’isola di Giava in Indonesia. Cochin (ora chiamata Kochi) è particolarmente bella, a mio parere. La città “storica” è un misto di portoghese, olandese e britannico. Fu occupata dai portoghesi all’inizio del XVI sec. e credo sia stato il primo centro colonizzato dagli Europei nel subcontinente indiano. In seguito, la città cadde prima sotto il controllo degli Olandesi e poi sotto il regno di Mysore, infine sotto la Gran Bretagna.
Camminare per le strade nella parte vecchia è un vero piacere. Ci sono degli edifici incantevoli. L’atmosfera è rilassante. Le chiese sono molto interessanti, perché contengono la “storia” degli Europei che hanno occupato questa terra, come la chiesa portoghese di San Francesco (metà XVI sec.). L’interno è interessante perché ci sono molte pietre tombali di illustri personaggi portoghesi. Inoltre c’è il monumento a Vasco de Gama. Il suo corpo venne poi trasportato a Lisbona.
Una delle cose più belle a Cochin è il cosiddetto “Palazzo Olandese”, che contiene fantastici affreschi raffiguranti soprattutto la storia epica del Ramayana. A mio parere sono di grande qualità, ma bisogna conoscere un po’ la storia per apprezzarli maggiormente. Cochin vanta anche una sinagoga ebraica.
I templi del Kerala hanno uno stile completamente diverso rispetto ad altre zone dell’India: l'architettura in legno del Kerala è un unicum in India e nel mondo. I templi così costruiti presentano un’essenziale bellezza e semplicità delle forme. Spesso il santo sanctorum è circolare, con rappresentazioni lignee di fattura eccezionale. Molti templi del Kerala sono interdetti ai non indù. Soltanto pochissimi sono aperti agli stranieri. In quelli “aperti”, gli uomini devono togliere la camicia e andare a torso nudo! A Padmanabhapuram, ex-capitale del principato di Trevancore, si trova un magnifico esempio di palazzo dei sovrani realizzato in legno nello stile tipico del Kerala, con i caratteristici tetti a doppio spiovente, finestre con frontone e lunghi corridoi. Stupendo!
Negli anni ’80 e inizio anni ’90 facevamo un’India meridionale spettacolare praticamente da Belgaum in Karnataka, tutto via terra, fino a Madras (ora Chennai), capoluogo del Tamil Nadu. Era un “tour de force”, ma un viaggio incredibilmente ricco, sia per la qualità e che per la quantità di monumenti visti, soprattutto di templi. Mi ricordo che, in uno dei tanti viaggi, giunti alla fine del percorso a Mahabalipuram, una sessantina di chilometri a sud di Madras, una partecipante era talmente stufa di vedere templi indù che decise di rimanere in albergo, un bellissimo albergo sulle rive dell’oceano indiano, per riposarsi e godere del mare e della spiaggia. E pensare che i monumenti di Mahabalipuram sono tra i più belli dell’India del Sud!
Mahabalipuram fu un importante centro portuale della dinastia Pallava. La cosa più bella in assoluto del complesso è “la discesa del Gange”, un enorme bassorilievo all'aperto che rappresenta la discesa della dea Ganga sulla terra, resa possibile dall'intervento di Shiva. Probabilmente il monumento più famoso del complesso, il cosiddetto “tempio sulla spiaggia” costruito con blocchi di pietra. Purtroppo è molto rovinato a causa della salsedine e personalmente non lo trovo esaltante. La signora, vedendo il nostro entusiasmo, si è poi pentita amaramente di non esserci venuta!
Il percorso di questo mitico viaggio in India del Sud (o “ubriacata” di templi) includeva una cittadina di montagna, Ooty. La salita e la discesa da Ooty sono spettacolari, c’è una varietà di piante e alberi veramente sorprendente: il caucciù (noto come l’albero della gomma), l’albero della pioggia, l’albero del pane, piantagioni di caffè e, più in alto, piantagioni di tè. Ci siamo fermati in un chiosco proprio in mezzo alle piantagioni e abbiamo bevuto un’ottima tazza di tè (broken orange pekoe). Ooty era una stazione climatica di montagna ai tempi dei britannici. Ci sono un paio di alberghi “coloniali” che sono una meraviglia! Nel centro di Ooty si trova un bel giardino botanico con piante rare. In realtà c’è poco da vedere, ma l’atmosfera è molto tranquilla, proprio come nella campagna inglese, anche se Ooty è a 2000 metri (molto più alto della montagna più alta della Gran Bretagna, Ben Nevis in Scozia, che svetta a 1344 metri!).
In quegli anni (erano gli anni ’80) le strade in India meridionale erano tremende e piene di buche. Non parliamo poi del “traffico” caotico: carretti trainati da bufali o buoi, biciclette, carri trainati a mano, animali e alcune macchine e camion. Gli spostamenti mettevano a dura prova. Anche alcuni alberghi erano tremendi, come quelli di Badami e Vijayanagar, modestissimi, direi “cessi”, da arrivare alla sera e ripartire alle 5 del mattino. Comunque, anche negli alberghi più scalcagnati, si mangiava sempre benissimo. Per visitare siti di grande bellezza si sopportavano i disagi e, stranamente, ritornando oggi negli stessi posti, mi sembrano molto diversi. Questi viaggi privi di confort diventano, col tempo, mitici e irripetibili.
In un altro viaggio più recente siamo arrivati alla punta dell’India, a Cape Comorin o Capo Kanyakumari (stato di Tamil Nadu). È un luogo importante, un misto di natura, mito, storia e spiritualità, che deve il suo “fascino” alla sua posizione. Si trova infatti sulla punta estrema del subcontinente indiano, è bagnata da tre mari (il Mare Arabico, l’Oceano Indiano e il Golfo del Bengala) che si incontrano e da lì si può vedere il sole sorgere e tramontare sul mare. A parte questo, la città non vale praticamente niente, è un postaccio puzzolente e stare tutto il giorno per vedere l’alba e il tramonto è veramente eccessivo. Ma sono contentissimo di esserci stato e ci tornerei. Il fatto di essere sulla punta più meridionale del sub-continente indiano è un’emozione. Anche se a volte uso delle espressioni poco ortodosse, l’India per me è sempre l’India! Con tutte le sue contraddizioni e stranezze, è sempre impareggiabile. Ci sarà ancora molto da dire sull’India prossimamente!
Oramai lo stato del Kerala è diventato di gran moda per i moltissimi centri ayurvedici. Personalmente, essere comparso d’olio, anche se profumato, non mi garba per niente. Il paesaggio del Kerala è tropicale: molto verde, pieno di laghi e corsi d’acqua. Sembra di essere sull’isola di Giava in Indonesia. Cochin (ora chiamata Kochi) è particolarmente bella, a mio parere. La città “storica” è un misto di portoghese, olandese e britannico. Fu occupata dai portoghesi all’inizio del XVI sec. e credo sia stato il primo centro colonizzato dagli Europei nel subcontinente indiano. In seguito, la città cadde prima sotto il controllo degli Olandesi e poi sotto il regno di Mysore, infine sotto la Gran Bretagna.
Camminare per le strade nella parte vecchia è un vero piacere. Ci sono degli edifici incantevoli. L’atmosfera è rilassante. Le chiese sono molto interessanti, perché contengono la “storia” degli Europei che hanno occupato questa terra, come la chiesa portoghese di San Francesco (metà XVI sec.). L’interno è interessante perché ci sono molte pietre tombali di illustri personaggi portoghesi. Inoltre c’è il monumento a Vasco de Gama. Il suo corpo venne poi trasportato a Lisbona.
Una delle cose più belle a Cochin è il cosiddetto “Palazzo Olandese”, che contiene fantastici affreschi raffiguranti soprattutto la storia epica del Ramayana. A mio parere sono di grande qualità, ma bisogna conoscere un po’ la storia per apprezzarli maggiormente. Cochin vanta anche una sinagoga ebraica.
I templi del Kerala hanno uno stile completamente diverso rispetto ad altre zone dell’India: l'architettura in legno del Kerala è un unicum in India e nel mondo. I templi così costruiti presentano un’essenziale bellezza e semplicità delle forme. Spesso il santo sanctorum è circolare, con rappresentazioni lignee di fattura eccezionale. Molti templi del Kerala sono interdetti ai non indù. Soltanto pochissimi sono aperti agli stranieri. In quelli “aperti”, gli uomini devono togliere la camicia e andare a torso nudo! A Padmanabhapuram, ex-capitale del principato di Trevancore, si trova un magnifico esempio di palazzo dei sovrani realizzato in legno nello stile tipico del Kerala, con i caratteristici tetti a doppio spiovente, finestre con frontone e lunghi corridoi. Stupendo!
Negli anni ’80 e inizio anni ’90 facevamo un’India meridionale spettacolare praticamente da Belgaum in Karnataka, tutto via terra, fino a Madras (ora Chennai), capoluogo del Tamil Nadu. Era un “tour de force”, ma un viaggio incredibilmente ricco, sia per la qualità e che per la quantità di monumenti visti, soprattutto di templi. Mi ricordo che, in uno dei tanti viaggi, giunti alla fine del percorso a Mahabalipuram, una sessantina di chilometri a sud di Madras, una partecipante era talmente stufa di vedere templi indù che decise di rimanere in albergo, un bellissimo albergo sulle rive dell’oceano indiano, per riposarsi e godere del mare e della spiaggia. E pensare che i monumenti di Mahabalipuram sono tra i più belli dell’India del Sud!
Mahabalipuram fu un importante centro portuale della dinastia Pallava. La cosa più bella in assoluto del complesso è “la discesa del Gange”, un enorme bassorilievo all'aperto che rappresenta la discesa della dea Ganga sulla terra, resa possibile dall'intervento di Shiva. Probabilmente il monumento più famoso del complesso, il cosiddetto “tempio sulla spiaggia” costruito con blocchi di pietra. Purtroppo è molto rovinato a causa della salsedine e personalmente non lo trovo esaltante. La signora, vedendo il nostro entusiasmo, si è poi pentita amaramente di non esserci venuta!
Il percorso di questo mitico viaggio in India del Sud (o “ubriacata” di templi) includeva una cittadina di montagna, Ooty. La salita e la discesa da Ooty sono spettacolari, c’è una varietà di piante e alberi veramente sorprendente: il caucciù (noto come l’albero della gomma), l’albero della pioggia, l’albero del pane, piantagioni di caffè e, più in alto, piantagioni di tè. Ci siamo fermati in un chiosco proprio in mezzo alle piantagioni e abbiamo bevuto un’ottima tazza di tè (broken orange pekoe). Ooty era una stazione climatica di montagna ai tempi dei britannici. Ci sono un paio di alberghi “coloniali” che sono una meraviglia! Nel centro di Ooty si trova un bel giardino botanico con piante rare. In realtà c’è poco da vedere, ma l’atmosfera è molto tranquilla, proprio come nella campagna inglese, anche se Ooty è a 2000 metri (molto più alto della montagna più alta della Gran Bretagna, Ben Nevis in Scozia, che svetta a 1344 metri!).
In quegli anni (erano gli anni ’80) le strade in India meridionale erano tremende e piene di buche. Non parliamo poi del “traffico” caotico: carretti trainati da bufali o buoi, biciclette, carri trainati a mano, animali e alcune macchine e camion. Gli spostamenti mettevano a dura prova. Anche alcuni alberghi erano tremendi, come quelli di Badami e Vijayanagar, modestissimi, direi “cessi”, da arrivare alla sera e ripartire alle 5 del mattino. Comunque, anche negli alberghi più scalcagnati, si mangiava sempre benissimo. Per visitare siti di grande bellezza si sopportavano i disagi e, stranamente, ritornando oggi negli stessi posti, mi sembrano molto diversi. Questi viaggi privi di confort diventano, col tempo, mitici e irripetibili.
In un altro viaggio più recente siamo arrivati alla punta dell’India, a Cape Comorin o Capo Kanyakumari (stato di Tamil Nadu). È un luogo importante, un misto di natura, mito, storia e spiritualità, che deve il suo “fascino” alla sua posizione. Si trova infatti sulla punta estrema del subcontinente indiano, è bagnata da tre mari (il Mare Arabico, l’Oceano Indiano e il Golfo del Bengala) che si incontrano e da lì si può vedere il sole sorgere e tramontare sul mare. A parte questo, la città non vale praticamente niente, è un postaccio puzzolente e stare tutto il giorno per vedere l’alba e il tramonto è veramente eccessivo. Ma sono contentissimo di esserci stato e ci tornerei. Il fatto di essere sulla punta più meridionale del sub-continente indiano è un’emozione. Anche se a volte uso delle espressioni poco ortodosse, l’India per me è sempre l’India! Con tutte le sue contraddizioni e stranezze, è sempre impareggiabile. Ci sarà ancora molto da dire sull’India prossimamente!
venerdì 17 ottobre 2008
Norwich e la contea di Norfolk: la campagna inglese
La settimana scorsa ho parlato della Repubblica Kirghisa e ho detto che la vetta più alta è Kurumdy, al confine tra Cina, Tagikistan e Repubblica Kirghisa (6813 m), ma mi sono sbagliato. La vetta più alta è Lenin Peak (7134 m), al confine tra la Repubblica Kirghisa e il Tagikistan, sempre appartenente alla catena montuosa dell’Arka Alai. La foto è presa da Sary-Tash, vicino alla casa dove abbiamo pernottato, e la vetta più alta è proprio il Lenin Peak! Chiedo scusa per l’imprecisione.
Ho già parlato della campagna inglese e di St. Alban’s nella contea dell’Hertfordshire, non lontano da Londra, in un articolo precedente. Avevo promesso di scrivere ancora sull’argomento. Eccoci!
Oltre a Londra, che oramai non è più inglese, ma altamente cosmopolita e globalizzata, tutti conoscono, per esempio, le città di Oxford, Cambridge, Stratford-upon-Avon, Bath, Brighton e posti famosi come Stonehenge, Hampton Court, Windsor e Blenheim Palace. Sono luoghi molto “canonici”, che vengono visitati ogni anno da migliaia di turisti stranieri. Ma c’è un’Inghilterra inesplorata (forse è meglio parlare di Isole Britanniche per non dimenticare Scozia, Galles a Irlanda del Nord).
Prendete per esempio la contea del Norfolk, nella regione orientale dell’East Anglia. È una contea isolata, nel senso che non si trova lungo le strade di grande comunicazione. Bisogna proprio andarci apposta. Il capoluogo si chiama Norwich, denominata “a Fine City”. Ai Normanni si devono i due edifici più importanti: il castello e la cattedrale. Norwich venne sostenuta per molto tempo da ricchi mercanti, che ne aumentarono la prosperità e il prestigio. L'attività più importante della città era la tessitura della lana. Nel XVI secolo, grazie alla presenza in città di tessitori olandesi (fiamminghi), Norwich incominciò a esportare i suoi filati e i suoi vestiti in tutta Europa.
È una delle poche città delle Isole Britanniche che vanta una piazza centrale con un mercato permanente all’aperto, Market Place, dove sorgono la City Hall e l'Old Guildhall. Si tratta della nuova e della vecchia sede del municipio. L'Old Guidhall è stato costruito all'inizio del '400 e rifatto nel '500. Sull'altro lato della piazza c'è la chiesa di Saint Peter Mancroft, in stile gotico. Le zone più antiche della città sono Elm Hill, una delle più belle strade d'Inghilterra, e Tombland, la vecchia piazza del mercato sassone, presso la cattedrale. È un quartiere magico lungo vicoli affiancati da antiche case. Norfolk è una contea prettamente agricola. Ebbe una notevole importanza, verso la metà del XVIII secolo, nella storia delle “enclosures”, cioé nel passaggio dal sistema dei "campi aperti" in prevalenza di proprietà collettiva al sistema di proprietà privata del terreno, detto appunto sistema di Norfolk.
Una delle parti più suggestive della contea è North Norfolk, affacciata sul Mare del Nord. Venendo da Norwich verso Cromer (una cittadina sulla costa settentrionale della contea che fu resa famosa nel periodo vittoriano come centro balneare) si attraversano paesaggi bellissimi: campi coltivati, folti boschi, piccoli villaggi, stradine che si perdono nelle campagne. Quello che colpisce è la ruralità del percorso e la luminosità del cielo, anche quando è coperto. Si pensa che East Anglia sia completamente piatta. Non è vero. Lungo la costa del North Norfolk da Mundesley a Sheringham, per esempio, si trova un’altura boscosa che scende verso il mare. Cromer non è famosa soltanto per l’architettura vittoriana ma anche per i suoi granchi ‘giganti’ noti come “Cromer crabs”. La cittadina si trova su un piccolo sperone sopra il mare. La parrocchiale di Cromer, San Pietro e Paolo, ha bellissime forme gotico-perpendicolari con una torre particolarmente alta ed elegante. Mantiene ancora il carattere vittoriano un po’ delabré, ma proprio questo rende la cittadina “da vedere”.
Una curiosità: Cromer è diretta verso il polo nord; se si traccia una linea da Cromer al polo nord non c’è nessun ostacolo in mezzo, in altre parole non s’incontra mai terra ma soltanto mare! Chissà che freddo! Quando soffia il vento da est o da nord in inverno il freddo è penetrante, ma bisogna anche dire che l’estate è molto soleggiata, la presenza di sole è più alta della media in Gran Bretagna e piove relativamente poco. Non ci crederete ma è proprio così!
Dopo Sheringham la costa diventa bassa e, seguendola verso Hunstanton, i villaggi sono rimasti fermi nel tempo. Cley-next-the-Sea per esempio non è più sul mare aperto, che si è ritirato. Per arrivarci bisogna camminare un miglio attraverso un terreno paludoso. C’è tutto un sistema complesso di canali di drenaggio. Il villaggio è delizioso. Ci sono delle case con un’interessante mescolanza di architettura georgiana e fiamminga. E pensare che Cley era un porto commerciale tra i più importanti della costa che si affaccia sul Mar del Nord! Sembra di ritornare indietro nel tempo di almeno 300 anni.
Vicino si trova Wells-next-to-sea da dove si può prendere un battello per vedere le foche proprio sulla punta dell’estuario. Le spiagge sono sabbiose e tra le più belle della Gran Bretagna. Tutta questa zona costiera è protetta dalla National Trust. Si trova un santuario di uccelli migratori. Da queste parti è nato l’ammiraglio Nelson (Lord Nelson), proprio a Burham Thorpe.
Perché parlo con tanto entusiamo del Norfolk? Perché quando ero piccolo i miei genitori mi portavano in vacanza a Cromer tutti gli anni e l’amore per questa nascosta parte dell’Inghilterra mi è rimasto nel cuore. Non nascondo il fatto che, quando dovrò lasciare Viaggi di Cultura e andare in pensione, mi piacerebbe moltissimo trasferirmi a Cromer!
Norfolk è anche famosa per le sue grandi ville. Prima di tutto c’è Sandringham House, nel Norfolk occidentale, verso King’s Lynn, residenza estiva della famiglia reale; poi Holkham Hall, dimora dei conti di Leicester in stile palladiano (visitabile) e Blickling Hall, in stile giacobeo, con mattoni a vista (visitabile). I giardini di questi palazzi sono fantastici e si possono fare tanti percorsi a piedi.
Ho parlato con entusiamo del Norfolk, ma un’altra contea dell’East Anglia è Suffolk, altro gioiellino poco conosciuto. Il famoso pittore paesaggista John Constable (1776-1837) è nato nel Suffolk. Le sue opere rispecchiano il paesaggio di questa contea che, miracolosamente, è rimasto tale quale fino ad oggi, o quasi. Ma di questo ne parleremo un’altra volta.
Ho già parlato della campagna inglese e di St. Alban’s nella contea dell’Hertfordshire, non lontano da Londra, in un articolo precedente. Avevo promesso di scrivere ancora sull’argomento. Eccoci!
Oltre a Londra, che oramai non è più inglese, ma altamente cosmopolita e globalizzata, tutti conoscono, per esempio, le città di Oxford, Cambridge, Stratford-upon-Avon, Bath, Brighton e posti famosi come Stonehenge, Hampton Court, Windsor e Blenheim Palace. Sono luoghi molto “canonici”, che vengono visitati ogni anno da migliaia di turisti stranieri. Ma c’è un’Inghilterra inesplorata (forse è meglio parlare di Isole Britanniche per non dimenticare Scozia, Galles a Irlanda del Nord).
Prendete per esempio la contea del Norfolk, nella regione orientale dell’East Anglia. È una contea isolata, nel senso che non si trova lungo le strade di grande comunicazione. Bisogna proprio andarci apposta. Il capoluogo si chiama Norwich, denominata “a Fine City”. Ai Normanni si devono i due edifici più importanti: il castello e la cattedrale. Norwich venne sostenuta per molto tempo da ricchi mercanti, che ne aumentarono la prosperità e il prestigio. L'attività più importante della città era la tessitura della lana. Nel XVI secolo, grazie alla presenza in città di tessitori olandesi (fiamminghi), Norwich incominciò a esportare i suoi filati e i suoi vestiti in tutta Europa.
È una delle poche città delle Isole Britanniche che vanta una piazza centrale con un mercato permanente all’aperto, Market Place, dove sorgono la City Hall e l'Old Guildhall. Si tratta della nuova e della vecchia sede del municipio. L'Old Guidhall è stato costruito all'inizio del '400 e rifatto nel '500. Sull'altro lato della piazza c'è la chiesa di Saint Peter Mancroft, in stile gotico. Le zone più antiche della città sono Elm Hill, una delle più belle strade d'Inghilterra, e Tombland, la vecchia piazza del mercato sassone, presso la cattedrale. È un quartiere magico lungo vicoli affiancati da antiche case. Norfolk è una contea prettamente agricola. Ebbe una notevole importanza, verso la metà del XVIII secolo, nella storia delle “enclosures”, cioé nel passaggio dal sistema dei "campi aperti" in prevalenza di proprietà collettiva al sistema di proprietà privata del terreno, detto appunto sistema di Norfolk.
Una delle parti più suggestive della contea è North Norfolk, affacciata sul Mare del Nord. Venendo da Norwich verso Cromer (una cittadina sulla costa settentrionale della contea che fu resa famosa nel periodo vittoriano come centro balneare) si attraversano paesaggi bellissimi: campi coltivati, folti boschi, piccoli villaggi, stradine che si perdono nelle campagne. Quello che colpisce è la ruralità del percorso e la luminosità del cielo, anche quando è coperto. Si pensa che East Anglia sia completamente piatta. Non è vero. Lungo la costa del North Norfolk da Mundesley a Sheringham, per esempio, si trova un’altura boscosa che scende verso il mare. Cromer non è famosa soltanto per l’architettura vittoriana ma anche per i suoi granchi ‘giganti’ noti come “Cromer crabs”. La cittadina si trova su un piccolo sperone sopra il mare. La parrocchiale di Cromer, San Pietro e Paolo, ha bellissime forme gotico-perpendicolari con una torre particolarmente alta ed elegante. Mantiene ancora il carattere vittoriano un po’ delabré, ma proprio questo rende la cittadina “da vedere”.
Una curiosità: Cromer è diretta verso il polo nord; se si traccia una linea da Cromer al polo nord non c’è nessun ostacolo in mezzo, in altre parole non s’incontra mai terra ma soltanto mare! Chissà che freddo! Quando soffia il vento da est o da nord in inverno il freddo è penetrante, ma bisogna anche dire che l’estate è molto soleggiata, la presenza di sole è più alta della media in Gran Bretagna e piove relativamente poco. Non ci crederete ma è proprio così!
Dopo Sheringham la costa diventa bassa e, seguendola verso Hunstanton, i villaggi sono rimasti fermi nel tempo. Cley-next-the-Sea per esempio non è più sul mare aperto, che si è ritirato. Per arrivarci bisogna camminare un miglio attraverso un terreno paludoso. C’è tutto un sistema complesso di canali di drenaggio. Il villaggio è delizioso. Ci sono delle case con un’interessante mescolanza di architettura georgiana e fiamminga. E pensare che Cley era un porto commerciale tra i più importanti della costa che si affaccia sul Mar del Nord! Sembra di ritornare indietro nel tempo di almeno 300 anni.
Vicino si trova Wells-next-to-sea da dove si può prendere un battello per vedere le foche proprio sulla punta dell’estuario. Le spiagge sono sabbiose e tra le più belle della Gran Bretagna. Tutta questa zona costiera è protetta dalla National Trust. Si trova un santuario di uccelli migratori. Da queste parti è nato l’ammiraglio Nelson (Lord Nelson), proprio a Burham Thorpe.
Perché parlo con tanto entusiamo del Norfolk? Perché quando ero piccolo i miei genitori mi portavano in vacanza a Cromer tutti gli anni e l’amore per questa nascosta parte dell’Inghilterra mi è rimasto nel cuore. Non nascondo il fatto che, quando dovrò lasciare Viaggi di Cultura e andare in pensione, mi piacerebbe moltissimo trasferirmi a Cromer!
Norfolk è anche famosa per le sue grandi ville. Prima di tutto c’è Sandringham House, nel Norfolk occidentale, verso King’s Lynn, residenza estiva della famiglia reale; poi Holkham Hall, dimora dei conti di Leicester in stile palladiano (visitabile) e Blickling Hall, in stile giacobeo, con mattoni a vista (visitabile). I giardini di questi palazzi sono fantastici e si possono fare tanti percorsi a piedi.
Ho parlato con entusiamo del Norfolk, ma un’altra contea dell’East Anglia è Suffolk, altro gioiellino poco conosciuto. Il famoso pittore paesaggista John Constable (1776-1837) è nato nel Suffolk. Le sue opere rispecchiano il paesaggio di questa contea che, miracolosamente, è rimasto tale quale fino ad oggi, o quasi. Ma di questo ne parleremo un’altra volta.
venerdì 10 ottobre 2008
Viaggio in Asia Centrale
Ultime notizie: il racconto di viaggio è stato scritto prima del forte terremoto che ha colpito la Repubblica Kirghisa alcuni giorni fa, in una zona impervia e isolata vicino a Sary-Tash. In realtà, ci sono state due forti scosse, una dalla parte kirghisa e l’altra dalla parte cinese, entrambe a circa 60 km da Sary-Tash. Ho avuto notizie dirette e so che non ci sono state vittime a Sary-Tash, soltanto qualche crepa ma nessun crollo. Durante il viaggio abbiamo dormito a Sary-Tash, quindi ero molto preoccupato per la famiglia che ci ha ospitato e per gli altri abitanti. Il villaggio colpito invece si chiama Nura, dove sono decedute 74 persone. Il villaggio è stato completamente raso al suolo. Dispiace veramente tanto.
Lo scorso agosto 2008 ho accompagnato un viaggio in Asia Centrale della durata di 26 giorni. È stato un ottimo gruppo, molto paziente e collaborativo. Il viaggio ha toccato tre paesi: Cina, Repubblica Kirghisa e Uzbekistan. Da Urumqi, il capoluogo della provincia autonoma uigura dello Sinkiang (Xinjiang), siamo arrivati all’oasi di Turfan (Turpan), una depressione sotto il livello del mare. Di pomeriggio c’erano 46 gradi. Io soffro il caldo, ma il calore di Turfan mi ha asciugato il corpo e tolto tutti i dolori!
Turfan è cambiata molto in questi ultimi anni. È quasi irriconoscibile. Il percorso fino alle grotte buddhiste di Bezeklik è stupendo. Le grotte si trovano nascoste in una stretta valle circondata da montagne nude e sabbiose. Nella stretta valle lungo il fiume si trova un’oasi. I colori, soprattutto di pomeriggio, sono bellissimi. Alcuni archeologi occidentali, soprattutto Sir Aurel Stein e Albert von Le Coq, spogliarono le grotte dagli affreschi. Ora si trovano nei musei di Londra, Berlino e San Pietroburgo e gli affreschi che rimasero furono “saccheggiati” dalle guardie rosse durante la rivoluzione culturale alla fine degli anni ’60 e all’inizio degli anni ’70. Purtroppo, in situ, c’è poco da vedere. Fanno vedere poche grotte, cinque o sei in tutto. Un paio di grotte sono ancora piuttosto belle, ma purtroppo abbastanza rovinate. Peccato!
Il viaggio segue la “Via della Seta” tra la catena montuosa del Tian Shan da una parte e il bacino del Tarim dall’altra. Si arriva a Kashgar (di cui ho già parlato più volte). Ora comincia la parte più “avventurosa”: l’ingresso nella Repubblica Kirghisa. Da Kashgar si sale verso il confine, in mezzo a montagne colorate soprattutto di rosso. Comincia a piovere, si vedono attraverso le nuvole vette innevate. Fa freddo! Poi il cielo si apre, le nuvole se ne vanno e il cielo diventa azzurro e l’atmosfera tersa. Arriviamo al confine cinese. Scarichiamo le valigie e passiamo agevolmente la dogana (soltanto una valigia viene aperta). È tutto molto ben organizzato. L’immigrazione (controllo passaporto) è abbastanza veloce. Ricarichiamo le valigie sul nostro pullman cinese, che ci porta a circa sei o sette chilometri al confine della Repubblica Kirghisa. Smontiamo in mezzo alla strada, prendiamo le nostre valigie e camminiamo in discesa (meno male) per circa 200 metri. Fortunatamente il tempo è bello. Non oso pensare se avesse piovuto, sarebbe stato un verso disastro. Aspettiamo circa venti minuti nell’attesa dei nostri tre pullmini kirghisi.
Incontriamo un gruppetto di neozelandesi che vanno nel Tagikistan per fare trekking e, poiché la loro macchina non arriva, diamo loro un passaggio fino al controllo passaporto nel villaggio a pochi chilometri di distanza. Il manto stradale è sempre bello come in Cina e comincio a sperare... so per esperienza che le strade kirghise di montagna sono terribili. In effetti, pochi chilometri dopo il villaggio dove abbiamo “scaricato” i neozelandesi, la strada diventa sterrata e poi una sassaia! Percorriamo 70 km in tre ore! Ma il paesaggio è così bello e grandioso che il fondo stradale diventa secondario rispetto al paesaggio incredibile che ci circonda. Purtroppo con la fretta non abbiamo caricato bene le valige e ci cadono addosso. Più tardi sistemo le valige in maniera più razionale. Torniamo al paesaggio. Da una parte ammiriamo la catena montuosa di Arka Alai, con vette innevate da 5000 e 6000 metri. La vetta più alta si chiama Kurumdy, al confine tra Cina, Tagikistan e Repubblica Kirghisa (6813 m). Sotto di noi c’è un immenso altopiano verde dove le bestie brucano durante la stagione estiva. Arriviamo infine a Sary Tash, un paese relativamente nuovo.
Fu fondato credo negli anni ’50, quando hanno cominciato a costruire la strada. È un paese ordinato con i tetti spioventi di lamiera. Stanno asciugando il fieno sui tetti. Nel villaggio raccolgono lo sterco delle mucche e fanno ordinate cataste. Lo sterco viene usato come combustibile. Dormiamo in una casa privata. I servizi sono rudimentali e dormiamo in comunità divise in tre stanze. Dormiamo sui tipici materassi in terra con coperte variopinte. La signora di casa è cordiale e pulita e le sue bimbe sono deliziose. Ci prepara la cena, il pilaff, che va benissimo. Serve delle albicocche sciroppate che sono la fine del mondo.
La notte passa tranquillamente e ripartiamo. L’arrivo nella Repubblica Kirghisa è stato un po’ traumatico a causa delle strade (direi piste, in alcuni casi quasi mulattiere) infami, delle valigie accatastate nei pullmini piuttosto stretti, della sistemazione in case private senza comodità, ma il ricordo rimane molto vivo. Tornerei a Sary Tash domani e ci starei qualche giorno.
La discesa ad Osh è regolare. Sempre paesaggi belli, formazioni rocciose straordinarie, colori da non credere, ma la strada è sempre terribile, meglio della prima parte, ma mette a dura prova i nervi. Arriviamo ad Osh nelle propaggini della valle di Fergana. Siamo in un albergo decente proprio di fianco al mercato. Il mercato di Osh è straordinario, probabilmente più bello di quello più famoso di Kashgar. Anche se siamo ancora nella Repubblica Kirghisa, l’Uzbekistan è a pochi chilometri e il quaranta percento della popolazione di Osh è uzbeka. I kirghisi sono sostanzialmente nomadi, e anche se alcuni si sono trasferiti ad Osh (una tattica del governo per contrastare l’ex-maggioranza uzbeka), nel loro intimo il nomadismo fa parte integrale della loro vita. La Repubblica Kirghisa è un paese per alpinisti e trekkisti. Chi fa un percorso “culturale” deve adattarsi alla mentalità poco imprenditoriale. Cambierà? Probabilmente il fascino del posto è proprio questo: lo spirito libero. Perché devono adattarsi a noi anziché noi adattarci a loro?
Credo che sia significativo questo semplice proverbio: "Si può viaggiare non per fuggire da se stessi, cosa impossibile, ma per ritrovarsi”. Riusciamo a “ritrovarci” in alberghi di super-lusso? Non credo, almeno non il sottoscritto. Affrontare esperienze particolari ci tempra e ci fa capire come siamo dentro. Ritornare alla semplicità ci può premiare. Comunque, mi rendo conto che sono considerazioni molto personali. Ritornando al viaggio, da Osh entriamo in Uzbekistan. Ma di questo vi parlerò un’altra volta!
Lo scorso agosto 2008 ho accompagnato un viaggio in Asia Centrale della durata di 26 giorni. È stato un ottimo gruppo, molto paziente e collaborativo. Il viaggio ha toccato tre paesi: Cina, Repubblica Kirghisa e Uzbekistan. Da Urumqi, il capoluogo della provincia autonoma uigura dello Sinkiang (Xinjiang), siamo arrivati all’oasi di Turfan (Turpan), una depressione sotto il livello del mare. Di pomeriggio c’erano 46 gradi. Io soffro il caldo, ma il calore di Turfan mi ha asciugato il corpo e tolto tutti i dolori!
Turfan è cambiata molto in questi ultimi anni. È quasi irriconoscibile. Il percorso fino alle grotte buddhiste di Bezeklik è stupendo. Le grotte si trovano nascoste in una stretta valle circondata da montagne nude e sabbiose. Nella stretta valle lungo il fiume si trova un’oasi. I colori, soprattutto di pomeriggio, sono bellissimi. Alcuni archeologi occidentali, soprattutto Sir Aurel Stein e Albert von Le Coq, spogliarono le grotte dagli affreschi. Ora si trovano nei musei di Londra, Berlino e San Pietroburgo e gli affreschi che rimasero furono “saccheggiati” dalle guardie rosse durante la rivoluzione culturale alla fine degli anni ’60 e all’inizio degli anni ’70. Purtroppo, in situ, c’è poco da vedere. Fanno vedere poche grotte, cinque o sei in tutto. Un paio di grotte sono ancora piuttosto belle, ma purtroppo abbastanza rovinate. Peccato!
Il viaggio segue la “Via della Seta” tra la catena montuosa del Tian Shan da una parte e il bacino del Tarim dall’altra. Si arriva a Kashgar (di cui ho già parlato più volte). Ora comincia la parte più “avventurosa”: l’ingresso nella Repubblica Kirghisa. Da Kashgar si sale verso il confine, in mezzo a montagne colorate soprattutto di rosso. Comincia a piovere, si vedono attraverso le nuvole vette innevate. Fa freddo! Poi il cielo si apre, le nuvole se ne vanno e il cielo diventa azzurro e l’atmosfera tersa. Arriviamo al confine cinese. Scarichiamo le valigie e passiamo agevolmente la dogana (soltanto una valigia viene aperta). È tutto molto ben organizzato. L’immigrazione (controllo passaporto) è abbastanza veloce. Ricarichiamo le valigie sul nostro pullman cinese, che ci porta a circa sei o sette chilometri al confine della Repubblica Kirghisa. Smontiamo in mezzo alla strada, prendiamo le nostre valigie e camminiamo in discesa (meno male) per circa 200 metri. Fortunatamente il tempo è bello. Non oso pensare se avesse piovuto, sarebbe stato un verso disastro. Aspettiamo circa venti minuti nell’attesa dei nostri tre pullmini kirghisi.
Incontriamo un gruppetto di neozelandesi che vanno nel Tagikistan per fare trekking e, poiché la loro macchina non arriva, diamo loro un passaggio fino al controllo passaporto nel villaggio a pochi chilometri di distanza. Il manto stradale è sempre bello come in Cina e comincio a sperare... so per esperienza che le strade kirghise di montagna sono terribili. In effetti, pochi chilometri dopo il villaggio dove abbiamo “scaricato” i neozelandesi, la strada diventa sterrata e poi una sassaia! Percorriamo 70 km in tre ore! Ma il paesaggio è così bello e grandioso che il fondo stradale diventa secondario rispetto al paesaggio incredibile che ci circonda. Purtroppo con la fretta non abbiamo caricato bene le valige e ci cadono addosso. Più tardi sistemo le valige in maniera più razionale. Torniamo al paesaggio. Da una parte ammiriamo la catena montuosa di Arka Alai, con vette innevate da 5000 e 6000 metri. La vetta più alta si chiama Kurumdy, al confine tra Cina, Tagikistan e Repubblica Kirghisa (6813 m). Sotto di noi c’è un immenso altopiano verde dove le bestie brucano durante la stagione estiva. Arriviamo infine a Sary Tash, un paese relativamente nuovo.
Fu fondato credo negli anni ’50, quando hanno cominciato a costruire la strada. È un paese ordinato con i tetti spioventi di lamiera. Stanno asciugando il fieno sui tetti. Nel villaggio raccolgono lo sterco delle mucche e fanno ordinate cataste. Lo sterco viene usato come combustibile. Dormiamo in una casa privata. I servizi sono rudimentali e dormiamo in comunità divise in tre stanze. Dormiamo sui tipici materassi in terra con coperte variopinte. La signora di casa è cordiale e pulita e le sue bimbe sono deliziose. Ci prepara la cena, il pilaff, che va benissimo. Serve delle albicocche sciroppate che sono la fine del mondo.
La notte passa tranquillamente e ripartiamo. L’arrivo nella Repubblica Kirghisa è stato un po’ traumatico a causa delle strade (direi piste, in alcuni casi quasi mulattiere) infami, delle valigie accatastate nei pullmini piuttosto stretti, della sistemazione in case private senza comodità, ma il ricordo rimane molto vivo. Tornerei a Sary Tash domani e ci starei qualche giorno.
La discesa ad Osh è regolare. Sempre paesaggi belli, formazioni rocciose straordinarie, colori da non credere, ma la strada è sempre terribile, meglio della prima parte, ma mette a dura prova i nervi. Arriviamo ad Osh nelle propaggini della valle di Fergana. Siamo in un albergo decente proprio di fianco al mercato. Il mercato di Osh è straordinario, probabilmente più bello di quello più famoso di Kashgar. Anche se siamo ancora nella Repubblica Kirghisa, l’Uzbekistan è a pochi chilometri e il quaranta percento della popolazione di Osh è uzbeka. I kirghisi sono sostanzialmente nomadi, e anche se alcuni si sono trasferiti ad Osh (una tattica del governo per contrastare l’ex-maggioranza uzbeka), nel loro intimo il nomadismo fa parte integrale della loro vita. La Repubblica Kirghisa è un paese per alpinisti e trekkisti. Chi fa un percorso “culturale” deve adattarsi alla mentalità poco imprenditoriale. Cambierà? Probabilmente il fascino del posto è proprio questo: lo spirito libero. Perché devono adattarsi a noi anziché noi adattarci a loro?
Credo che sia significativo questo semplice proverbio: "Si può viaggiare non per fuggire da se stessi, cosa impossibile, ma per ritrovarsi”. Riusciamo a “ritrovarci” in alberghi di super-lusso? Non credo, almeno non il sottoscritto. Affrontare esperienze particolari ci tempra e ci fa capire come siamo dentro. Ritornare alla semplicità ci può premiare. Comunque, mi rendo conto che sono considerazioni molto personali. Ritornando al viaggio, da Osh entriamo in Uzbekistan. Ma di questo vi parlerò un’altra volta!
giovedì 2 ottobre 2008
Tibet
Il Tibet ha qualche cosa di speciale. Forse è l’aria tersa e cristallina, come difficilmente si trova da altre parti, forse è il paesaggio aspro e maestoso, forse sono i monasteri popolati da tanti monaci, ma probabilmente è tutto l’insieme di queste cose che rendono unico il Tibet.
Poi partiamo per Gyantse. Prendiamo la vecchia strada che fiancheggia il lago Yamdrok-tso. Prima di arrivare al lago superiamo il passo di Kamba-la (4800 metri slm circa). La veduta dall’alto sul lago è spettacolare: nel sole è di un turchese intenso. Scendiamo sul lago e mangiamo i nostri panini. Proseguiamo per Gyantse e superiamo un altro passo, Karo-la (oltre 5000 metri). Siamo fotunati! La giornata è limpida, senza nuvole e vediamo la maestosa montagna (sembra più una catena montuosa anziché una vetta ) di Nojin Kangstang, che supera i 7000 metri. È uno dei punti più belli del viaggio. II ghiacciao è incredibile, sembra di toccarlo…
Questo passo ricorda il colonnello Francis Younghusband e lo scontro con i tibetani. Nel 1904 la Gran Bretagna spedì forze militari indiane, al suo comando, per sanare una controversia confinaria, che di fatto significò l'occupazione militare del Tibet, anche a seguito dell'interesse per il Tibet manifestato dallo Zar di Russia. In risposta a questa operazione militare il ministro degli esteri cinese affermò per la prima volta in modo esplicito che era la Cina ad avere sovranità sui territori tibetani.
L’arrivo a Lhasa in aereo è emozionante. In realtà bisognerebbe arrivare via terra o dal Nepal o dal Qinghai, i paesaggi sono incredibili ma anche incredibilmente faticosi.
L’aeroporto di Lhasa dista una settantina di chilometri dalla città. Il primo impatto è forte. Lhasa è cresciuta all’inverosmile in questi ultimi anni. Attorno al centro ‘antico’ tibetano si trova la città moderna. Una volta il Potala era fuori Lhasa, ma ora c’è un quartiere completamente nuovo che si estende a perdita d’occhio. Dal Potala stesso si ha una veduta di questa enorme espansione. Appena siamo arrivati a Lhasa, dopo un breve salto in albergo, siamo schizzati fuori per visitare il centro ‘storico’. La piazza si anima moltissimo nel tardo pomeriggio, piena di pellegrini che visitano la cosiddetta cattedrale tibetana, il Jokhang. I pellegrini fanno il percorso del Barkhor: un percorso in senso orario, nelle stradine che circondano il Jokhang. È bellissimo seguire i pellegrini. Molti fedeli fanno il percorso genuflettendosi continuamente e impiegano un bel po’ di tempo per fare il giro completo.
Poi partiamo per Gyantse. Prendiamo la vecchia strada che fiancheggia il lago Yamdrok-tso. Prima di arrivare al lago superiamo il passo di Kamba-la (4800 metri slm circa). La veduta dall’alto sul lago è spettacolare: nel sole è di un turchese intenso. Scendiamo sul lago e mangiamo i nostri panini. Proseguiamo per Gyantse e superiamo un altro passo, Karo-la (oltre 5000 metri). Siamo fotunati! La giornata è limpida, senza nuvole e vediamo la maestosa montagna (sembra più una catena montuosa anziché una vetta ) di Nojin Kangstang, che supera i 7000 metri. È uno dei punti più belli del viaggio. II ghiacciao è incredibile, sembra di toccarlo…
Questo passo ricorda il colonnello Francis Younghusband e lo scontro con i tibetani. Nel 1904 la Gran Bretagna spedì forze militari indiane, al suo comando, per sanare una controversia confinaria, che di fatto significò l'occupazione militare del Tibet, anche a seguito dell'interesse per il Tibet manifestato dallo Zar di Russia. In risposta a questa operazione militare il ministro degli esteri cinese affermò per la prima volta in modo esplicito che era la Cina ad avere sovranità sui territori tibetani.
Ritorniamo al nostro viaggio. Da questo punto il nostro viaggio diventa difficile. Stanno facendo una imponente centrale elettrica e la strada già sterrata sta diventando un pantano per i molti camion che ci passano. Arriva un temporale, passa velocemente, ma ad un certo punto il nostro pullmino Toyoto di 17 posti rimane impantanto. Il nostro autista, furbo, accelera e la situazione peggiora. Una ruota affonda sempre di più nel terreno fangoso. Scendiamo. Cosa facciamo? Passa un pullmino di tedeschi. Si fermano. Io e alcuni forzuti tedeschi ci diamo da fare: cerchiamo di sollevare il nostro pullmino dal lato della ruota affondata nel fango. Niente da fare. Il pullmino dei tedeschi è pieno e non possono darci un passaggio. Passano pochissimi mezzi, a parte qualche camion. Siamo oltre i 3500 metri, forse a quasi 4000 metri, e dopo lo sforzo mi viene un mal di testa talmente forte che non connetto più. Sto malissimo. Maurizio Paolillo, assistente culturale, è preoccupato. Ferma una jeep con una coppia di americani e chiede se mi possono portare a Gyantse. Nonostante le mie condizioni ‘precarie’ insisto per rimanere. Come faccio ad abbandonare il gruppo? Il gruppo insiste e vengo caricato. La destinazione finale della coppia di americani è il campo base dell’Everest. Hanno tutte le attrezzature e varie medicine. Mi danno una pillola, non chiedetemi cosa, ma quando arrivo a Gyantse, all’albergo, sto meglio. Vado in camera ma penso al gruppo. Non posso rimanere ad aspettare. Stanno arrivando diverse jeep con turisti che si fermano una notte a Gyantse. Chiedo agli autisti, naturalmente con un compenso, di venire con me a prelevare il gruppo. Se li incontriamo lungo la strada mentre stanno arrivando bene. Procediamo, ma niente, non incontriamo nessun mezzo lungo il percorso. Viaggiamo per più di un’ora. Poi vediamo in distanza dei fari. È certamente il nostro pullmino. Sì, finalmente abbiamo trovato il nostro pullmino. Si era impantanato ancora. Erano le 10 di sera, buio pesto. Maurizio Paolillo, quando ha visto le luci delle jeep, ha esclamato: “È Mike, è venuto a prenderci”.
Così stretti, stretti, ci trasferiamo nelle jeep. Le valigie viaggiavano separatamente, perciò erano già arrivate in albergo. Arriviamo verso mezzanotte. Il ristorante ha aspettato il nostro arrivo e così abbiamo cenato.
Così stretti, stretti, ci trasferiamo nelle jeep. Le valigie viaggiavano separatamente, perciò erano già arrivate in albergo. Arriviamo verso mezzanotte. Il ristorante ha aspettato il nostro arrivo e così abbiamo cenato.
Le visite del giorno dopo sono a Gyantse, walking distance. Comunque, mentre usciamo, arriva il nostro pullman. Credo che Gyantse sia il posto più bello del Tibet, cioè l’insieme di monumenti: lo spettacolare monastero di Pelkor Chode circondato da una cinta di mura che segue l’andamento della collina alle spalle del complesso, il Kumbum ricchissimo di bellissimi dipinti e il forte di Gyantse. La salita è dura ma la vista su Gyantze e sui monumenti è mozzafiato. Da Gyantse, prima di prendere la strada per Shigatse, abbiamo fatto una deviazione per un monastero che normalmente non si visita e che dista dalla strada maestra circa 20 km. Non mi ricordo il nome ma il posto è incantevole. È qui che ho trovato una chiarezza cristallina nell’aria, simile solo a quella della Tierra del Fuego. Sembra di toccare le montagne circonvicine e le torri di avvistamento sulle rupi, talmente sono nitide sopra di noi.
Una sensazione di grande gioia e pace.
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