Torniamo a parlare di Calcutta (Kolkata) una città che amo particolarmente. Non è bella, ma affascinante. Sembra una contraddizione ma non lo è. L’assetto della città è disordinato, le case fatiscenti, i marciapiedi sconessi, gli atri delle case anneriti, smog e fumo pervadono l’atmosfera, ma in tutta questa bolgia la vita pulsa talmente forte che non ci sono uguali. La folla è incontenibile, ti travolge, ti penetra dentro addirittura, almeno si ha questa sensazione. Tutti gli sguardi sono su di te, ti scrutano, ma non disturba perché nessuno ha occhi cattivi. A parte la folla immensa che travolge la città tutti i giorni, camminare per le strade, osservare vecchi edifici fine 800 e inizio 900, camminare nella zona del tempio dedicato alla dea Kali, tra l’altro di fianco all’ospizio di Madre Teresa di Calcutta, tra le bancarelle, recarsi al famoso ponte di ferro sul fiume Hooghly, andare al mercato dei fiori sotto il ponte presto alla mattina dove ci si ubriaca dell’odore delle foglie marcite, calpestate da migliaia di persone, ma anche della piacevole fragranza dei fiori appena arrivati dalle campagne, molti dei quali saranno offerti nei templi della città per non parlare del miscuglio di colori, ti galvanizza; camminare nel parco (Maidan) e guardare i ragazzi giocare a cricket, passeggiare per il lungo fiume e osservare i fedeli offrire fiori al fiume (Hooghly è in realtà la Ganga) e assistere ad alcuni riti presieduti dal brahmino, camminare nel cimitero (Park Cemetry) e leggere i nomi dei personaggi incisi sulle tombe, per lo più britannici, vissuti nel 700, 800 e 900, molti dei quali deceduti prematuramente per una malattia tropicale o per problemi gastro-intestinali a causa del clima pestifero, sognare ad occhi aperti e fare un quadro della persona e pensare come potesse trovarsi in un posto così ‘diverso’ ma nello stesso tempo così ‘simile’, dato che all’inizio del 900 divenne la seconda città più grande dell’impero dopo Londra, ti paralizza; passeggiare nella zona universitaria e fermarsi agli innumerevoli negozietti e bancarelle di libri di seconda mano, visitare il museo universitario con una notevole collezione di sculture, visitare il Palazzo di Marmo, appartenente ad una vecchia famiglia bengalese, entrare nella Victoria Memorial per studiare la storia della città, ti meraviglia. La lista di meraviglie poi continua.
È molto divertente prendere un vecchio tram oppure prendere la metropolitana ed esplorare zone sconosciute da ‘normali’ turisti frettolosi. Ricordiamo che Calcutta è anche la ‘Città della Gioia’ di Dominque Lapierre, ora diventata un quartiere ‘residenziale’. E che dire del giardino botanico (in realtà un parco) con alberi secolari? Prendere un battello lungo il fiume Hooghly e raggiungere i vecchi insediamenti francesi, danesi e portoghesi. E le sue innumerevoli chiese cristiane dove, all’interno, si trova la storia dei coloni. E che dire dei templi indu lungo il fiume frequentato da migliaia di fedeli?
Allora non è vero che c’è poco da vedere a Calcutta? No, non è vero. Se uno vuole vivere veramente l’India non deve andare a Delhi o Bombay ma a Calcutta. Fare tua la città, intimamente, è difficile ma non impossibile. È una vittoria sentire Calcutta parte di te stesso e credo che soltanto gli animi sensibili possano arrivarci. Sì, è vero che l’India ha due facce, una romantica e spirituale, l’altra carnale e violenta. Chi ha visto il film ‘Millionaire’, molto reale, capisce questo fatto. Ma per cogliere le sottigliezze di questo immenso paese bisogna avere una marcia in più, un animo gentile ma nello stesso tempo una volontà di ferro e forse un po’ di cinismo…. È una contraddizione? Può darsi, ma soltanto così si riesce a capire, almeno si tenta di capire, la sua carnalità e la sua spiritualità in sovrapposizione. Che dire? L’India è un mistero! Credo che il contrasto venga interiorizzato dal famoso poeta bengalese Tagore nella seguente poesia:
L'uccello prigioniero nella gabbia, l'uccello libero nella foresta: quando venne il tempo s'incontrarono, questo era il decreto del destino. L'uccello libero grida al compagno: «Amore mio, voliamo nel bosco!». L'uccello prigioniero gli sussurra: «Vieni, viviamo entrambi nella gabbia». Dice l'uccello libero: «Tra sbarre, dove c'è spazio per stendere l'ali?». «Ahimè», grida l'uccello nella gabbia, «Non so dove appollaiarmi nel cielo». L'uccello libero grida: «Amore mio, canta le canzoni delle foreste». L'uccello in gabbia dice: «Siedi al mio fianco, t'insegnerò il linguaggio dei sapienti». L'uccello libero grida: «No, oh no! I canti non si possono insegnare». L'uccello nella gabbia dice: «Ahimè, non conosco i canti delle foreste». Il loro amore è intenso e struggente, ma non possono mai volare assieme. Attraverso le sbarre della gabbia si guardano e si guardano, ma è vano il loro desiderio di conoscersi. Scuotono ansiosamente le ali e cantano: «Vieni vicino a me, amore mio!». L'uccello libero grida: «È impossibile, temo le porte chiuse della gabbia». L'uccello in gabbia sussurra: «Ahimé, le mie ali sono morte e impotenti».
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